Controcorrente – di Carlo M. Marenco (Il babau n.10)

Erano passati molti anni ed era ancora a casa.

Le pagine lasciate aperte sulla scrivania emanavano una luce nuova.

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Sciolse l’enigma contenuto nel quadrato magico, linea di demarcazione dimenticata del suo ricercare, di fronte alla quale non v’era altra soluzione che l’arrestarsi e mutare il corso del fluire.

Egli capì di non appartenere al proprio presente, vivendo in ogni tempo.

I dolori e le pene del contatto con gli altri erano attutiti dal silenzio, rimossi o trasfigurati nel contatto con il pensiero universale. I colori, i profumi ed i suoni della vita che scorre, i suoi sentimenti vivevano racchiusi nello scrigno, dall’apparenza anonima, dei libri che altri avevano scritto per lui.

Si mosse in direzione della meta, ed il suo incedere parve velato dall’incertezza di un istante.

La grande pendola, metronomo inesorabile ma discreto, nascosto in un angolo remoto, rintoccò le cinque, fermando l’attimo del suo ritorno alla verità.

Non avrebbe più ripercorso quella strada.

Al di là dell’uscio il mondo era in un fermento costante, affascinante e brutale, lontano dal suo nido, tebaide non dorata ma rassicurante. Il mappamondo statico e sorpassato, coperto dalla polvere dei cambiamenti, rifletteva sulla sua superficie lucida le sue aspirazioni di bimbo, offrendo loro un luogo immutabile eppur sempre nuovo.

Il cilindro di cristallo, al quale non faceva più caso, ma che sapeva esserci, poggiava sopra un’apparente macchia di colore, un’anamorfosi da riportare alla realtà delle forme originarie. L’orologio in ottone sulla scrivania, dono di Maria, a scandire i minuti delle attese ed a percorrere, inopportuno, ad ampi passi i momenti felici.

Suppellettili poste a caso, forse, ma divenute inamovibili, la cui storia si perdeva nel tempo e nel tempo trovava ragione; appigli infinitesimali all’abitudine del perdurare.

Mobili antichi, o semplicemente vecchi, a segnare la continuità del passato e cantare la prosecuzione della vita, attraverso nuove generazioni.

Il grande quadro di Ofelia dominava la stanza, triste eppur lieve come le sue riflessioni, simbolo, troppo amato e finalmente compreso, della durezza di una scelta e della pace che da essa deriva. Echi dei suoi pensieri, un affresco a tinte multiformi del suo essere uomo, provenivano dalla grande libreria, la cui ricchezza risiedeva non certo nel legno a buon mercato, ma nelle pagine che da altri legni avevano origine.

La stanza e gli oggetti che la componevano erano immersi nella penombra dei giorni uguali, come in una placenta nella quale sentirsi al sicuro.

Innanzi a lui, la trepidazione di un ritorno.

Aprì la porta, volgendo un ultimo sguardo al mondo che abbandonava.

Fuori pioveva.