Conversazione con Nico Orengo a cura di Eugenio Fici e Carlo M. Marenco
Un’intervista un poco atipica questa, svolta senza l’ausilio del registratore, basandosi sulla memoria e su qualche appunto preso durante la conversazione, poiché, come dice Nico Orengo, “è meglio non usare quel coso lì perché con quello le parole si appiattiscono, sono tutte uguali, mentre così rimane solo ciò che si ricorda, ciò che è importante. Se non si ricorda niente va anche bene la pagina bianca.”
Nei romanzi di Orengo, nato a Torino, ma vissuto in Liguria, a Dolceacqua, ritorna un’osservazione attenta e malinconica di questa terra, del rapporto tra entroterra e mare. Liguria, che ha definito come terra di poeti, priva di storia. In questo senso i narratori e poeti liguri del novecento sono anche descrittori di immagini e paesaggi.
Fici: Lei ha lavorato in Einaudi per diversi anni, con Calvino ed altri. In ‘Miramare’ c’è una metafora sul rapporto tra lei e la casa editrice…
Orengo: Era la storia del rapporto tra un ragazzo ed il suo giardiniere-padre-padrone. Se c’era metafora era quella del mio rapporto con Giulio Einaudi. Lavoravo in casa editrice già da otto anni e quello era il mio primo romanzo. Feci leggere il manoscritto a Calvino, a cui era piaciuto un mio precedente racconto (“Per preparare nuovi idilli” ndr). Calvino non ne sostenne la pubblicazione ed il romanzo uscì successivamente per la Marsilio. Ne soffrii, perché io all’epoca pensavo che lavorare per Einaudi significasse anche scrivere per Einaudi. Invece i tempi erano cambiati, le case editrici erano già diventate imprese industriali.
Marenco: A questo proposito, lei ritiene che il passare in secondo piano della letteratura sia dovuto al maggiore e più comodo impatto dei media, al conseguente impoverimento del prodotto letterario, oppure, secondo un’opinione così corrente da esser diventata quasi luogo comune, al fatto che “il romanzo è morto”?
No, il romanzo non è mai morto e non è morto nemmeno oggi, sicuramente da una parte si ha molto meno tempo di leggere di una volta e l’industria editoriale ha contribuito a disinformare ed ingannare il lettore, sommergendo un po’ delle cose buone con altre molto meno buone, ma di facile presa; e dall’altra la televisione ed i giornali sono più forti. Il pensiero debole è passato, è passato su tutto, anche sul romanzo, e allora se quello che funziona oggi è la superficie, il pensiero debole sarà presente anche nel romanzo.
M: Come spiega il fatto che gli anglosassoni, e gli americani in particolare, abbiano grandi tirature e grandissime vendite, è solo una questione industriale?
Quelli sono dei grandi romanzi. In Le Carré c’è grandissima letteratura, una letteratura che è forte ed ha ancora il senso del mondo, della stabilità, una visione del mondo in “buoni e cattivi” come nel romanzo secentesco, mentre in King c’è la paura dell’America. King, che è un grande narratore, dice delle cose molto importanti e le sa dire in maniera popolare ed intellettuale allo stesso tempo, sa raccogliere più attenzioni. Noi non abbiamo mai avuto questa capacità.
M: Ha senso dire che il pensiero europeo ed italiano si sono “autoghettizzati”, parlando troppo spesso di piccole storie, di sesso, ad indicare un minimalismo di pensiero?
Sì, è un’idea. Esiste questa posizione del pensiero come pensiero debole pensiero debole, dove c’è tutto, il contrario di tutto, c’è la superficie. Il romanzo, però, per sua natura, deve essere una cosa con dei poli, non a caso oggi si parla del romanzo cattolico anche se in sé non è un romanzo. Spesso un’ideologia forte fa apparire un romanzo più forte di quanto in realtà esso sia.
M: Come si può spiegare il fiorire della mini editoria, di piccole case editrici che diventano grandi, come Marietti?
Il lettore di oggi tende ad ipotizzare un lettore tipo, che altri non è che sé stesso. Attraverso questo processo di identificazione egli immagina una possibile cerchia di amici che vorrebbero leggere quello che egli legge. C’è la forza straordinaria di tentare di non esser sconfitti dai libri che non si vogliono leggere. Allo stesso modo, tutti i veri editori sono quelli che come lettori vorrebbero leggere certi libri, che, se non gli vengono dati da altri, pensano di darsi da soli.
M: questa è una grande cosa in un’epoca nella quale ciò che maggiormente conta è il ritorno economico…
Se però sono bravi il ritorno economico può venir fuori. È necessario, naturalmente, che lavorino con serietà ed attenzione a quanto viene prodotto.
F: Le riviste di letteratura come le vede?
Hanno una vita difficilissima. Se non hanno qualcuno alle spalle, devono esser formate da un gruppo di persone molto unite, che credono in un’idea e quell’idea la fanno diventare una rivista o una casa editrice, a seconda dei mezzi e delle possibilità.
Una volta una rivista aveva sicuramente più spazi, mentre oggi ne ha meno, perché quello che uno anni fa poteva scrivere solo in rivista oggi lo può scrivere sul giornale.
F: È un’idea di consumo, o un’idea letteraria?
No, credo che si siano abbattuti certi steccati per i quali alcune cose si potevano scrivere solo sulle riviste perché i giornali non le avrebbero pubblicate. La rivista aveva allora la funzione di palestra ideologica, di pensiero. Oggi quello che uno scrive su una rivista lo può scrivere su un giornale, il giornale lo vuole, così facendo esso ha svuotato le riviste del loro contenuto.
Diverso, invece, il discorso per quanto riguarda la rivista letteraria intesa come ‘cantiere’, di racconti e poesie…
F: come la nostra…
… che va benissimo, però si corre il rischio di diventare chiusi. Va molto bene che esistano riviste di questo tipo, perché questo educa uno scrittore, bisogna vedere se ciò basta a far vivere la rivista. Se è certamente utile a chi scrive una poesia o un racconto non so se lo è altrettanto alla rivista per sopravvivere.
M: Oggi le grandi riviste di letteratura hanno funzione di rivista di “servizio”, di informazione, si è perso completamente lo spirito che animava le riviste-manifesto, come Lacerba dei Futuristi. Non ritiene che la riproposizione di una rivista di questo tipo possa rappresentare una novità, un nuovo tipo di futuro?
Sì, certo, ma non è una cosa nuova: “Linea d’Ombra” è riuscita a portare avanti un discorso di questo tipo, anche se con molte difficoltà. È la rivista che offre maggiori spazi agli autori nuovi. Certo, va benissimo che esistano riviste di questo tipo, ma non sono una novità. Se un qualsiasi quotidiano italiano pubblica gli scrittori nuovi presentati “Linea d’Ombra” questi hanno maggiore risonanza… ed inoltre oggi c’è una maggiore fretta. Al tempo delle riviste “manifesto” uno scrittore aveva la possibilità di crescere all’interno della rivista, oggi no, oggi addirittura il primo coreano che arriva in Italia gli editori se lo contendono perché è coreano, fa ridere ma è così.
M: Non vi è dunque speranza per le piccole riviste?
La rivista funziona se c’è un gruppo di persone che si riunisce per discutere di poesia, di filosofia, di letteratura, ma tutto ciò può significare anche rivista sepolta; non si può pensare che possa ottenere un successo di pubblico, certo qualche curioso la vede, la legge, dice “come è bravo quello lì”, però il successo appartiene ai grandi gruppi letterari. Certo è fondamentale che le piccole riviste esistano, fanno bene alla letteratura, la mantengono viva, mantenendo vivo il rapporto autore-lettore; il grande successo, però, è loro precluso.
M: In realtà noi stessi ci siamo accorti di come sia difficile uscire alla luce, i problemi sono molti, soprattutto di distribuzione e di pubblicità. È bastato che “Cuore” parlasse di noi, per avere un certo riscontro di pubblico…
Certo, “Cuore” viene letto da un pubblico preciso che crede in ciò che scrive il giornale.
M: Non crede comunque che la pubblicità sia di fondamentale importanza oggi.
F: Se si continua a rimanere nell’ombra, si corre il rischio di chiudersi, anche con i lettori.
Vero, però nell’editoria se c’è una vera novità la trovi, il mercato è affamato di novità, la riprova maggiore è la fortuna di Baraghini coi libri a mille lire, un vero uovo di Colombo: Baraghini non ha pubblicizzato, ha detto che l’aveva fatto. Se si riesce ad incuriosire non è difficile farsi conoscere. Allo stesso modo vi sono possibilità per chiunque scriva cose realmente buone.
M: è solo una questione di prezzi popolari, come nel caso dei libri Newton-Compton, o è qualcos’altro?
Il paragone non è proponibile, i Newton-Compton sono pessima editoria, le traduzioni non sono delle migliori…, il discorso di Baraghini è di maggiore serietà.
M: Una domanda ora di interesse personale, esistono possibilità di pubblicazione per scrittori noir italiani o, come avviene per la musica rock, questo è uno spazio lasciato ai soli scrittori stranieri?
Non si può parlare di una linea di demarcazione tra ciò che gli autori italiani possono pubblicare e quello che non possono pubblicare, esiste un mercato per il noir: Solfanelli, infatti, pubblica un sacco di neri italiani. Certo, il nero italiano funziona meno di quello americano, che è straordinario ed ha alle spalle una grande tradizione in questo genere. Anche qui, come nel rock, c’è solo il fatto che gli altri sono più bravi.
M: Non crede che se gli italiani smettessero di scimmiottare i propri modelli, attingendo alla propria tradizione, si potrebbe assistere a qualcosa di nuovo? Nella produzione anglosassone, di moda oggi, l’uomo non viene fuori più di tanto…
Ciò è solo parzialmente vero, nei romanzieri inglesi c’è sicuramente introspezione psicologica ma, comunque, quello che va adesso mi sembra che sia più da macelleria.
M: È il pubblico che vuole questo oppure il mercato è dominato dallo strapotere americano?
Gli americani, nel loro genere, sono molto bravi, sono dei grandissimi narratori, con una grande conoscenza dei propri mezzi.
M: Qual è il suo rapporto personale tra giornalismo e letteratura?
Il giornalismo è scrittura di superficie, mentre romanzo e poesia sono scrittura di profondità. Credo che la scrittura giornalistica aiuti, come a dire, a buttar via delle parole, aiuti a capire che esistono gli altri. Spesso chi scrive cade nella trappola di pensare che tutte le parole che adopera siano necessarie e ciò non è assolutamente vero, ed avviene perché non si ha un riscontro. In questo senso, il giornalismo che, invece, è scrittura di superficie e velocità, di consumo, aiuta ad integrare queste due visioni. Il giornalismo aiuta lo scrittore a non rimaner isolato dalla realtà.
M: Si può parlare quindi di interazione tra scrittura giornalistica e scrittura letteraria?
Senza dubbio sì, se si riescono ad integrare le due visioni, se si lavora sulla parola, sulla parola più veloce ma che comunica, perché diretta. Allora dare attenzione alla parola non è dannoso, ma arricchente.
F: Quali sono i libri che ama leggere?
Leggo di tutto. Dipende dai periodi e da quello che esce. Mi piace leggere i classici, ma anche i libri che mi sorprendono, che fanno vedere dei mondi che non conosco. Tra questi un italiano molto bravo, Cappelli (Gaetano, ndr), che ha descritto il sud degli yuppies, che non conoscevo. Ultimamente ho letto Harris de “Il silenzio degli innocenti”. “Hotel d’Alsace” di Kazimierz Brandys… Tre saggi su Wilde, Gide e Léautaud. Mi piace Tabucchi. Vi sono poi libri che mi piacciono perché si fanno leggere, altri che leggo per la lingua, per il suono. Le motivazioni alla lettura sono diverse, a volte si leggono libri perché si è interessati a scoprire delle culture nuove, altre volte perché si vogliono vedere cose che non si sono mai viste.
M: Come vede la trasposizione cinematografica di opere letterarie?
La vedo male, male perché penso sia un altro linguaggio, un’altra cosa. Il contenuto può essere lo stesso, ma la letteratura è linguaggio e il linguaggio è intraducibile. Vi sono degli autori che si è tentato di riproporre in chiave cinematografica, senza che ciò avesse alcun senso…
M: … come è avvenuto con Kundera. Eppure, a volte, come nel Barry Lindon di Kubrick, le perfette ricostruzioni ambientali aiutano lo spettatore-lettore a collocare la storia in uno spazio temporale che sia anche visivo.
Ciò avviene perché Kubrick è bravo, però il contenuto è un contenuto di una scrittura che non è quella; del romanzo di Thackeray rimane solo la storia.
F: In quale misura le sue letture influiscono su ciò che scrive?
Nell’inconscio non lo so, credo ci sia un momento in cui si è più fragili, emotivi, per cui si scelgono certi maestri e qualche volta li si scimmiotta e momenti in cui invece si vuole fare un’altra cosa, allora bisogna vedere quanto l’inconscio lavora.
M: Nella sua opera vi è uno spazio sconosciuto nella pagina, oppure tutto è già prefissato?
No, questo no, uno può avere un’idea iniziale ed una traccia però poi va da solo, è la scrittura che sceglie, una volta che è sciolta e si sceglie il percorso arriva alla fine.
F: Secondo lei, anche uno scrittore come Moravia lavorava in questo modo?
Non so, ma credo che lui fosse uno scrittore con un’idea molto più precisa di quello che voleva scrivere. I suoi erano romanzi molto attesi e ciò forse poteva influire in qualche modo.
F: Proprio riguardo Moravia ho sentito la definizione di scrittore trama…
Sì, ma anche la trama è una cosa che si forma poi da sola. In quel caso, invece, la trama cerca di chiudere e, in qualche modo, la fa chiudere. È una trama che ha sempre un’idea dietro, una morale.
F: Nella scrittura dilettante contemporanea, come nel passato, gli autori tendono all’autobiografia, al diario?
In questo tipo di narrazione gli autori sono portati ad una forma di comunicazione: si scrive per gli amici, o comunque per un numero ristretto di persone. Spesso ci si legge, ed il testo diventa uno specchio, un ritratto della nostra esistenza.