Fuori pioveva.
Aprì la porta, volgendo un ultimo sguardo al mondo che abbandonava.
Innanzi a lui, la trepidazione di un ritorno.
La stanza e gli oggetti che la componevano erano immersi nella penombra dei giorni uguali, come in una placenta nella quale sentirsi al sicuro.
Echi dei suoi pensieri, un affresco a tinte multiformi del suo essere uomo, provenivano dalla grande libreria, la cui ricchezza risiedeva non certo nel legno a buon mercato, ma nelle pagine che da altri legni avevano origine.
Il grande quadro di Ofelia dominava la stanza, triste eppur lieve come le sue riflessioni, simbolo, troppo amato e finalmente compreso, della durezza di una scelta e della pace che da essa deriva.
Mobili antichi, o semplicemente vecchi, a segnare la continuità del passato e cantare la prosecuzione della vita, attraverso nuove generazioni.
Suppellettili poste a caso, forse, ma divenute inamovibili, la cui storia si perdeva nel tempo e nel tempo trovava ragione; appigli infinitesimali all’abitudine del perdurare. L’orologio in ottone sulla scrivania, dono di Maria, a scandire i minuti delle attese ed a percorrere, inopportuno, ad ampi passi i momenti felici. Il cilindro di cristallo, al quale non faceva più caso, ma che sapeva esserci, poggiava sopra un’apparente macchia di colore, un’anamorfosi da riportare alla realtà delle forme originarie. Il mappamondo statico e sorpassato, coperto dalla polvere dei cambiamenti, rifletteva sulla sua superficie lucida le sue aspirazioni di bimbo, offrendo loro un luogo immutabile eppur sempre nuovo.
Al di là dell’uscio il mondo era in un fermento costante, affascinante e brutale, lontano dal suo nido, tebaide non dorata ma rassicurante.
Non avrebbe più ripercorso quella strada.
La grande pendola, metronomo inesorabile ma discreto, nascosto in un angolo remoto, rintoccò le cinque, fermando l’attimo del suo ritorno alla verità.
Si mosse in direzione della meta, ed il suo incedere parve velato dall’incertezza di un istante.
I colori, i profumi ed i suoni della vita che scorre, i suoi sentimenti vivevano racchiusi nello scrigno, dall’apparenza anonima, dei libri che altri avevano scritto per lui. I dolori e le pene del contatto con gli altri erano attutiti dal silenzio, rimossi o trasfigurati nel contatto con il pensiero universale.
Egli capì di non appartenere al proprio presente, vivendo in ogni tempo.
Sciolse l’enigma contenuto nel quadrato magico, linea di demarcazione dimenticata del suo ricercare, di fronte alla quale non v’era altra soluzione che l’arrestarsi e mutare il corso del fluire.
Le pagine lasciate aperte sulla scrivania emanavano una luce nuova.
Erano passati molti anni ed era ancora a casa.