Te lo immagini? Il bisnonno sotto un acquazzone da fine del mondo, il bosco di ottobre buio come di notte, i piedi in un’acqua rossa e marrone che viene giù da Casa del Luv e tappeti di foglie, ricci, aghi di pino che scivolano manco fossero in aria, volano. E quello che non vola rotola, si abbatte, frana, tonfa. Dal campanile delle Rocche non è tanto che Sciandro ha sentito i quattro tocchi del pomeriggio ma il tempo, all’improvviso, non esiste più. Manco da chiederselo che ore saranno. La pioggia è un muro davanti agli occhi e sordità nelle orecchie. C’è paura. Quella paura che Sandrino, figlio di Chinèn dei Pliz, ha provato tanti anni fa, due o tre volte, da ragazzino. A lui imbalsama le gambe, la paura. Lo fa andare piano come se nelle tasche delle braghe di fustagno avesse un chilo di pietre. Ma tanto di correre non fa bisogno. Dove corri? Non si vede niente. Crolla il ramo di un castagno, lì a due passi. Non dovrebbe esserci un abergh, un essiccatoio, qua? Siamo ancora sul sentiero di Ghirmiana? Fosse uno che crede alle anime dei morti ora le invocherebbe. Quella dell’amsè Giovanni, magari. O degli Ivaldi tutti. Che di bricchi ne han saliti e di fossi saltati: e sicuramente erano pratici a tirarsi fuori dalla bagna. Ma lui mica crede all’anima. Morto io morto Dio. E ora a morire sono i sensi: lui è sveglio ma i suoi sensi dormono. La paura (ecco, se la paura è un senso, è l’unico senso a non mollare). Anche il respiro adesso fatica a fare il suo cammino, è una capra da tirare, il respiro. Si impunta. Piove sempre più forte. Credeva di essere in piedi, di stare andando, anche se piano. Invece è per terra, in ginocchio. Ma quando è caduto? Non si è accorto. All’improvviso risente il campanile del Santuario. Quanti colpi sono? Dieci? Undici? È mai possibile che sia passato tutto questo tempo? Crolla un altro ramo, davanti. Lo sfiora, quasi. Poi un tronco. Diluvia. E si è alzato il vento. Tira un’aria senza direzione. Fredda. Lui piange. Sa che non può fare altro. Prova ad alzarsi e, a quel punto, proprio a quel punto, sente una mano che gli abbranca il braccio, lo tira su. È un uomo quello che lo sta aiutando. Ha la faccia del Giudeo che l’anno prima è passato dai Pliz con il carretto a comprare stracci e a fare “i pianeti”, gli oroscopi, a quelle donne ascemellate. Mi date gli stracci e vi pago con i pianeti. Con la predizione della fortuna. Vi dico quante corbe d’uva voi e i vostri mariti tirerete fuori da queste firagnere, se sarà gragnora, grandine, se i figli si sposeranno entro una cinquina di anni e come saranno i prossimi due inverni. È lui. Il Giudeo, il Gidè. Uno che si dice venga dall’Urba, che stia in una tana dalle parti della Badia. Ma c’è chi lo ha visto a Genova chiedere la carità davanti al Massoero, l’ospizio dei poveri. “Su, Sandrino” gli fa “ hai stammi bene a sentire: vai dritto avanti di qua, conta il tempo di tre sbadigli e sei sullo stradone”. “Ma chi sei” gli domanda Sciandro, che ora ha la febbre e trema e si sente il sangue in bocca e nel naso. “Sono” dice il Gidè “Giuanìn Bittadè. Quello obbligato a camminare per sempre. Finché il Signore non si prenderà la briga di fare ritorno. Ora va”.
E così fece Sciandro. Andò. E arrivò subito sullo stradone. E smise all’improvviso di piovere. Anzi, nel cielo della notte, c’erano le stelle. Entrò nell’osteria di Nullo. Aveva una sete orba. “Dammi un po’ di vinetta, Nullo. Ho preso tanta di quell’acqua da venire matto. Non fosse stato per quel Cristo di un Giudeo…”. “Cosa dici, Sciandro? Sei bello che ciucco già prima di avere bevuto? Non piove dall’otto di Settembre e tu sei più asciutto dell’ Africa”. Ed era proprio così, non una goccia d’acqua, un segno del fango sulla camicia, sulle braghe e sulle scarpe. Niente.