Quando mi chiedono se sono parente dei Priano “della focaccia” rispondo di no. Ma non è vero. Non so quando gli omonimi abbiano iniziato la loro attività, se quaranta, cinquanta o sessant’anni fa ma la focaccia i “miei” Priano la facevano, in via Guala (allora via Brignole De Ferrari) già alla fine dell’Ottocento. Focaccia (anzi, “fugassa”) voltrese con tutti i crismi, con cipolle o senza. O di patate. A Voltri la “fugassa” è un ‘istituzione, come a Napoli la pizza e a Recco le trofie. La “fugassa” è buona in tutta la Liguria ma come quella di Voltri non ce n’è: o, almeno, un tempo era così. Ora, ad essere sinceri, non so. Il nonno smise di fare focaccia indimenticabile quando comprò il forno elettrico: lui così pervicacemente conservatore in tutto, ostinato e incistito nemico di ogni innovazione (la mia idea è che perfino il suo antifascismo fosse principalmente diffidenza per la novità che il regime di Mussolini rappresentava) si lasciò sedurre chissà da quale sirena magnifica e progressiva. Ed alle paradisiache fiamme alimentate da pezzi di rovere e di castagno venne sostituito, così, l’accendispegni di bottoni rossi e verdi. E pane e focaccia persero l’“aura”. Nel 1972 il nonno morì e si chiuse bottega.
C’è un’Ade dei forni voltesi. Vi vagano panettieri con “e braghe gianche” come quello della canzone che mi cantava mio padre, da piccolo (“O Baciccìn vattene a cà”). Gli occhi vuoti, le mani ossute, incipriati di farina camminano lentamente, curvi. Se ti avvicini li riconosci. Sono “o Poixio” (specialità grissini all’ olio di oliva), “o Giavè” (“fugassa” tagliata a triangoli, sublime), “Paolìn de e stradde neuve”, “o Ricìa”, “o Bùga”, “o Barrucca” (che affilava i coltelli sugli scalini del negozio e ripuliva la lama con lo sputo), “a Boraxin –na” (che faceva credito a tutti). Deambulano in compagnia dei muratori (i “massachèn”). Se ti veu fa un mestè d’inferno fanni o fornà d’estè e o massacàn d’ inverno.