– Allora lo prendi tu o ci vado io?
Troppo tardi: il coperchio della buca delle lettere cadde con un colpo secco e il cane del vicino cominciò ad abbaiare.
Il giovane postino era vestito con una camicia blu chiaro. Consegnò a Tim una busta marrone: occorreva la sua firma. Finita l’operazione mise la biro in tasca e fece ballonzolare il libretto delle firme. Poi si allontanò attraverso i giardini e i cespugli polverosi di lillà, i prati inglesi, le macchine plastificate, le pietre dei marciapiedi e le palizzate non verniciate delle case popolari.
Tim guardò fisso la porta per un attimo, tenendo la lettera tra le mani. Raccomandata? Di solito voleva dire cattive notizie. Non aveva intestazione. L’indirizzo era battuto a macchina.
– Cosa è? -chiese Tricia mentre Tim provava ad aprire la busta.
– Non lo so, ma se il comune vuole alzare il prezzo del…
Si azzittì quando vide un assegno e poi una lettera. Guardava incredulo la cifra scritta a suo favore.
– Allora? -disse lei.
– Un attimo! Lasciami vedere… – Lesse con ansia. Velocemente. – Sai cosa è questo? -disse infine- Sai cosa diamine è questo? È un regalo del cielo. Ecco cosa è! Ascolta:
“Caro signor Stephens,
Lei non mi conosce ma le scrivo perché mi è giunta voce che lei ha dei grossi problemi con suo figlio Kevin. Non mi chieda come l’ho saputo ma mi risulta che suo figlio è stato colpito dalla talidomide e soffre di gravi handicap. So quanti sacrifici ha fatto per lui e quanto bene gli vuole. Sono i fondamenti di un amore che mi ha veramente commosso. Io sono scapolo e vivo solo. I miei genitori sono morti e mi hanno lasciato un’eredità che è più che sufficiente per tirare avanti. Appena ho saputo la vostra storia ho pensato che i soldi sarebbero stati più utili a voi. A Tokio c’è un istituto specializzato nella cura del talidomide. Sono sicuro che l’assegno che vi ho mandato vi permetterà di mandare Kevin dal dottor Tankaniako: laggiù verrà assistito e curato come si deve. Io mi troverò a Leicester attorno al 12 del mese prossimo e spero che una visita da voi sarà gradita. A me farebbe tanto piacere e spero che sia così anche per voi. Fatemelo sapere.
Sinceramente.
John Ayrton”
– Pensi che sia vero, Tim?
– Lo vedremo presto. Intanto ecco l’assegno. Mi sembra tutto a posto. Sentirò cosa dicono alla banca.
Tim versò la somma su un conto corrente ad alto interesse. Continuava a pensare con stupore a quanto quella cifra fosse alta, lui abituato al suo stipendio di muratore. Pensò a Kevin: quella era la sua opportunità. Anche il medico di famiglia era d’accordo. Quell’occasione non andava persa. Tim e sua moglie camminavano lentamente verso casa. poi si sedevano nel soggiorno e guardavano il disordine degli oggetti intorno. Non avevano né tempo né voglia di mettere le cose a posto. Restavano lì a guardare la tappezzeria sporca e il tappeto macchiato. Guardavano la sedia con le cinghia di cuoio, usata da Kevin per il pasto. ventitré anni di vita con quel problema.
– Quella può essere buttata via –disse Tim. Tricia stava per piangere. Era come se tutto le fosse venuto improvvisamente alla gola dopo ventitré anni di quella vita. Sembrava che venissero alla superficie della terra dalle caverne profonde e adesso poteva respirare liberamente. Sì -disse sottovoce, come per timore di risvegliarsi da un incantesimo.
Telefonarono all’istituto di Tokio e si misero d’accordo su tutto. Kevin sembrava capire: c’era una specie di sorriso agli angoli della sua bocca. Ti faremo visita due volte all’anno -gli disse Tricia.
All’aeroporto l’infermiere giapponese li stava aspettando. Era tutto vestito di bianco e sorrideva sempre.
Prima di salire sull’aereo Kevin si sollevò sulla sedia a rotelle e guardo Tricia e Tim con u sorriso. Forse voleva salutarli in quel modo o forse la sua testa pendeva all’indietro, incapace di sostenersi.
A casa si sentivano come pensionati. Non sapevano che fare. Mettevano su il the e tornavano a sedersi. Nel pomeriggio facevano shopping. Lei comprava un tovagliolo giallo, tornava a casa e metteva il tovagliolo nuovo al suo posto. Era sgualcito, ma non faceva niente.
Dopo due settimane John Ayrton telefonò.
Sì, sì, la prego, venga a trovarci! -disse Tim.
La tappezzeria e le sedie era nuove. E anche il divano. Il campanello suonò secco. Tricia andò ad aprire. Le tazze di porcellana con il the erano pronte. Ecco il signor Ayrton: un completo grigio, le scarpe nere, la camicia bianca e la cravatta scura. Sembrava più vecchio di come lo avevano immaginato. Forse aveva solo trent’anni, ma loro lo avevano pensato poco più che ragazzo.
– Permesso?
Fu fatto accomodare con una tazza di the in mano.
– Vogliamo ringraziarla di cuore per…
– Di niente, niente.
– Ma…
– La cosa che conta è che abbiate utilizzato i soldi per Kevin. Lui ora è in buone mani.
Ci fu una pausa di silenzio. Ayrton guardava in fondo alla sua tazza di the. Tricia e Tim cominciarono a fargli domande. Lui spiegò: non aveva un lavoro. I soldi dell’eredità gli erano più che sufficienti per vivere senza lavorare. John parlava piano, con timidezza. Andarono a tavola. Dopo poche parole tra loro ci fu silenzio e decisero di accendere la tivù. Finito di cenare John fu accompagnato alla sua camera. Quella che era di Kevin. Tricia e Tim rimasero un po’ a parlare prima di addormentarsi: John sembrava un ragazzo smarrito e un po’ timido. Non gli avevano neppure chiesto quando erano morti i genitori.
Il giorno seguente quello fu il primo argomento che affrontarono a tavola. La risposta fu data svogliatamente: Sono morti insieme, circa un mese fa, in un incidente stradale.
Commiserazione.
E poi di nuovo silenzio. E così per i giorni seguenti. John scendeva dalla camera di Kevin, dove si coricava leggendo romanzi della biblioteca comunale. Faceva la prima colazione, poi usciva a passeggiare in centro, poi rincasava per il pranzo, usciva di nuovo e tornava per cenare. Poi un po’ di tivù e a letto. Di solito appena entrato in casa -la coppia gli aveva dato la chiave- saliva le scale e andava subito in camera. Poi un giorno, per rompere il silenzio, Tricia disse che avrebbe potuto lasciare il bucato, che per lei un po’ di più o di meno faceva lo stesso.
Passò una settimana, due, un mese.
Finché un giorno Tim, sollecitato da Tricia, gli chiese notizia sulla casa dei suoi genitori.
– Venduta -disse John.
– Venduta?
– Sì -disse John con un piccolissimo segno di irritazione- L’ho venduta. Così Kevin ha potuto fare la cura.
Sorrise guardando Tricia e Tim che erano rimasti in silenzio. Poi rivolse lo sguardo verso lo schermo della tivù.
I due uscirono dalla stanza senza parlare. Camminavano fianco a fianco senza guardarsi. Tim fu il primo a sollevare il viso.
Disse a Tricia: Quando pensi che se ne andrà?
Fece una pausa. La sua voce era morta e la casa gli si stringeva intorno. Si aprivano le caverne.
– Cioè, volevo dire, pensi che se ne andrà?
– Allora lo prendi tu o ci vado io?
Troppo tardi: il coperchio della buca delle lettere cadde con un colpo secco e il cane del vicino cominciò ad abbaiare.
Il giovane postino era vestito con una camicia blu chiaro. Consegnò a Tim una busta marrone: occorreva la sua firma. Finita l’operazione mise la biro in tasca e fece ballonzolare il libretto delle firme. Poi si allontanò attraverso i giardini e i cespugli polverosi di lillà, i prati inglesi, le macchine plastificate, le pietre dei marciapiedi e le palizzate non verniciate delle case popolari.
Tim guardò fisso la porta per un attimo, tenendo la lettera tra le mani. Raccomandata? Di solito voleva dire cattive notizie. Non aveva intestazione. L’indirizzo era battuto a macchina.
– Cosa è? -chiese Tricia mentre Tim provava ad aprire la busta.
– Non lo so, ma se il comune vuole alzare il prezzo del…
Si azzittì quando vide un assegno e poi una lettera. Guardava incredulo la cifra scritta a suo favore.
– Allora? -disse lei.
– Un attimo! Lasciami vedere… – Lesse con ansia. Velocemente. – Sai cosa è questo? -disse infine- Sai cosa diamine è questo? È un regalo del cielo. Ecco cosa è! Ascolta:
“Caro signor Stephens,
Lei non mi conosce ma le scrivo perché mi è giunta voce che lei ha dei grossi problemi con suo figlio Kevin. Non mi chieda come l’ho saputo ma mi risulta che suo figlio è stato colpito dalla talidomide e soffre di gravi handicap. So quanti sacrifici ha fatto per lui e quanto bene gli vuole. Sono i fondamenti di un amore che mi ha veramente commosso. Io sono scapolo e vivo solo. I miei genitori sono morti e mi hanno lasciato un’eredità che è più che sufficiente per tirare avanti. Appena ho saputo la vostra storia ho pensato che i soldi sarebbero stati più utili a voi. A Tokio c’è un istituto specializzato nella cura del talidomide. Sono sicuro che l’assegno che vi ho mandato vi permetterà di mandare Kevin dal dottor Tankaniako: laggiù verrà assistito e curato come si deve. Io mi troverò a Leicester attorno al 12 del mese prossimo e spero che una visita da voi sarà gradita. A me farebbe tanto piacere e spero che sia così anche per voi. Fatemelo sapere.
Sinceramente.
John Ayrton”
– Pensi che sia vero, Tim?
– Lo vedremo presto. Intanto ecco l’assegno. Mi sembra tutto a posto. Sentirò cosa dicono alla banca.
Tim versò la somma su un conto corrente ad alto interesse. Continuava a pensare con stupore a quanto quella cifra fosse alta, lui abituato al suo stipendio di muratore. Pensò a Kevin: quella era la sua opportunità. Anche il medico di famiglia era d’accordo. Quell’occasione non andava persa. Tim e sua moglie camminavano lentamente verso casa. poi si sedevano nel soggiorno e guardavano il disordine degli oggetti intorno. Non avevano né tempo né voglia di mettere le cose a posto. Restavano lì a guardare la tappezzeria sporca e il tappeto macchiato. Guardavano la sedia con le cinghia di cuoio, usata da Kevin per il pasto. ventitré anni di vita con quel problema.
– Quella può essere buttata via –disse Tim. Tricia stava per piangere. Era come se tutto le fosse venuto improvvisamente alla gola dopo ventitré anni di quella vita. Sembrava che venissero alla superficie della terra dalle caverne profonde e adesso poteva respirare liberamente. Sì -disse sottovoce, come per timore di risvegliarsi da un incantesimo.
Telefonarono all’istituto di Tokio e si misero d’accordo su tutto. Kevin sembrava capire: c’era una specie di sorriso agli angoli della sua bocca. Ti faremo visita due volte all’anno -gli disse Tricia.
All’aeroporto l’infermiere giapponese li stava aspettando. Era tutto vestito di bianco e sorrideva sempre.
Prima di salire sull’aereo Kevin si sollevò sulla sedia a rotelle e guardo Tricia e Tim con u sorriso. Forse voleva salutarli in quel modo o forse la sua testa pendeva all’indietro, incapace di sostenersi.
A casa si sentivano come pensionati. Non sapevano che fare. Mettevano su il the e tornavano a sedersi. Nel pomeriggio facevano shopping. Lei comprava un tovagliolo giallo, tornava a casa e metteva il tovagliolo nuovo al suo posto. Era sgualcito, ma non faceva niente.
Dopo due settimane John Ayrton telefonò.
Sì, sì, la prego, venga a trovarci! -disse Tim.
La tappezzeria e le sedie era nuove. E anche il divano. Il campanello suonò secco. Tricia andò ad aprire. Le tazze di porcellana con il the erano pronte. Ecco il signor Ayrton: un completo grigio, le scarpe nere, la camicia bianca e la cravatta scura. Sembrava più vecchio di come lo avevano immaginato. Forse aveva solo trent’anni, ma loro lo avevano pensato poco più che ragazzo.
– Permesso?
Fu fatto accomodare con una tazza di the in mano.
– Vogliamo ringraziarla di cuore per…
– Di niente, niente.
– Ma…
– La cosa che conta è che abbiate utilizzato i soldi per Kevin. Lui ora è in buone mani.
Ci fu una pausa di silenzio. Ayrton guardava in fondo alla sua tazza di the. Tricia e Tim cominciarono a fargli domande. Lui spiegò: non aveva un lavoro. I soldi dell’eredità gli erano più che sufficienti per vivere senza lavorare. John parlava piano, con timidezza. Andarono a tavola. Dopo poche parole tra loro ci fu silenzio e decisero di accendere la tivù. Finito di cenare John fu accompagnato alla sua camera. Quella che era di Kevin. Tricia e Tim rimasero un po’ a parlare prima di addormentarsi: John sembrava un ragazzo smarrito e un po’ timido. Non gli avevano neppure chiesto quando erano morti i genitori.
Il giorno seguente quello fu il primo argomento che affrontarono a tavola. La risposta fu data svogliatamente: Sono morti insieme, circa un mese fa, in un incidente stradale.
Commiserazione.
E poi di nuovo silenzio. E così per i giorni seguenti. John scendeva dalla camera di Kevin, dove si coricava leggendo romanzi della biblioteca comunale. Faceva la prima colazione, poi usciva a passeggiare in centro, poi rincasava per il pranzo, usciva di nuovo e tornava per cenare. Poi un po’ di tivù e a letto. Di solito appena entrato in casa -la coppia gli aveva dato la chiave- saliva le scale e andava subito in camera. Poi un giorno, per rompere il silenzio, Tricia disse che avrebbe potuto lasciare il bucato, che per lei un po’ di più o di meno faceva lo stesso.
Passò una settimana, due, un mese.
Finché un giorno Tim, sollecitato da Tricia, gli chiese notizia sulla casa dei suoi genitori.
– Venduta -disse John.
– Venduta?
– Sì -disse John con un piccolissimo segno di irritazione- L’ho venduta. Così Kevin ha potuto fare la cura.
Sorrise guardando Tricia e Tim che erano rimasti in silenzio. Poi rivolse lo sguardo verso lo schermo della tivù.
I due uscirono dalla stanza senza parlare. Camminavano fianco a fianco senza guardarsi. Tim fu il primo a sollevare il viso.
Disse a Tricia: Quando pensi che se ne andrà?
Fece una pausa. La sua voce era morta e la casa gli si stringeva intorno. Si aprivano le caverne.
– Cioè, volevo dire, pensi che se ne andrà?