A cura di Alessandra Pozzo
Dario Fo usa spesso, durante i suoi spettacoli, un linguaggio inventato che è composto prevalentemente, anziché da parole contenute nel vocabolario, da suoni che imitano la struttura sonora di una lingua. Questo linguaggio è il grammelot. Esistono anche grammelot che imitano suoni naturali (come la pioggia) o tecnologici (ad esempio il rumore delle automobili). Ho chiesto a Fo di raccontarmi qualcosa in proposito…
A.P.: Quello che colpisce, nel grammelot, che non ci sono parole, ed eppure viene compreso da tutti…
Fo: Certo, il grammelot è un passe-partout, perché sono i gesti e i suoni che determinano il discorso. Quando si usano i grammelot delle lingue straniere il suono è il coadiuvante del gesto. Il grammelot non esiste senza il gesto. Io ho realizzato dei dischi nei quali abbiamo inserito una voce portante che descrive quello che succede e quali sono i miei gesti. C’è poi un’altra possibilità: indicare l’argomento. Prima di fare il grammelot io introduco quello che andrò ad eseguire, indico il tema. Durante lo svolgersi dell’azione è importantissimo che il pubblico sappia qual è l’argomento.
A.P.: Quindi la parte più strettamente sonora viene percepita in misura minore da chi non capisce, ad esempio, i dialetti padani o i “linguaggi struttura”?
Fo: Ho notato che l’uso del dialetto o della lingua ha un’importanza relativa. Nello spettacolo “Johan Padan e la descoverta de le Americhe” io uso volutamente, oltre al lombardo, molte parole difficili in spagnolo, perché importante che s’intenda il suono, l’andamento, che ci sia insomma l’onomatopea della lingua.
A.P.: Insomma la sua struttura sonora…
Fo: Certo. Io adopero ad esempio molte volte “suerte” e poi dei francesismi, come “scianza”, “scernit”, “scernis”, “sciuasit” per dire scelto; uso “scansado” per dire stanco, “puede” per possa. Ci sono quelli che rifiutano di fare qualsiasi sforzo per capire… Peggio per loro! Questo sforzo è quello da cui procede la fantasia.
A.P.: Quali sono le origini del grammelot?
Fo: Il grammelot non l’ho inventato io. Ci sono varie versioni sull’origine di questo linguaggio: c’è chi lo vuole piuttosto recente; c’è chi dice che derivi da “grommeler”, cioè morsicare, masticare, azzannare in francese (in Francia difatti lo chiamano “grommelot”). Altri sostengono invece che derivi da “gramlotto”, espressione di origine veneta della commedia dell’arte. Il grammelot veniva usato dai comici dell’arte come forma tipica di racconto, è risaputo. La tradizione è stata tramandata da compagnia a compagnia. Io ho scoperto il grammelot in Francia, pochi anni fa; in realtà per˜ lo eseguivo già da tempo, ed anzi, tutti lo eseguivamo istintivamente quando, per esempio, si fingeva di cantare in inglese usando parole a caso dal suono pressappoco inglese… Quando ero bambino, durante una vacanza in Svizzera, ho trovato dei bambini che cantavano in tedesco e mi sono unito a loro, facendo appunto il grammelot in tedesco, ripetendo i suoni che avevo sentito. Tutti i bambini fanno così, fanno dello sfarfuglio. La mia nipotina mi faceva dei discorsi lunghi delle ore di cui capivo il significato grazie ai gesti. La cosa fondamentale proprio realizzare un linguaggio e farsi capire. Nello spettacolo “Johan Padan…” la prima cosa che interessa al protagonista è farsi capire dagli indigeni. C’è una battuta che è tratta da una cronaca vera del Nuovo Messico in cui un indio dice: “Tutto vi perdoniamo ma non il fatto che non abbiate tentato di parlare la nostra lingua, non solo, ma di farvi capire almeno a gesti”. Questa frase tocca il problema fondamentale. Il grammelot, inoltre, è veramente la lingua massima del teatro. Anche nei grandi scrittori, Shakespeare e via dicendo, si può percepire una grande attenzione alla dimensione onomatopeica, al suono, al gioco delle sonorità. Io mi sono meravigliato vedendo a Londra degli spettacoli che già conoscevo, per la percezione delle sonorità che la lingua originale ti dà e che si perde nella traduzione. I suoni, i gesti, i rumori sono fondamentali. Sì, anche i rumori. C’è un pezzo nel “Johan Padan” in cui io faccio la pioggia;è un piovere di piccole lacrime, c’è un dio della pioggia che si commuove perché riescono a far ridere suo figlio e allora, a forza di lacrime, quasi annega la gente. C’è un dialogo che è giocato addirittura sul grammelot dei suoni. Così come in un altro pezzo dello spettacolo c’è una tempesta descritta solo attraverso i suoni, con parole onomatopeiche che sono quasi intraducibili. Quando devo farne la traduzione divento pazzo. Ho insegnato il grammelot alla Comédie-Française, c’è un brano di Sganarello che era proprio un grammelot e i miei allievi non sapevano assolutamente farlo, ho dovuto mettere su delle parole, dei suoni e da questi hanno cominciato ad articolare.
A.P.: Su un testo di Molière?
Fo: Nel “Medico volante” e nel “Medico per forza”. Qui il protagonista sproloquia, usa dei latinismi che tradotti non significano nulla; bisogna trovare l’equivalente dei suoni, non delle parole.
A.P.: Ci sono dei testi che documentino un uso del grammelot in Francia nel passato?
Fo: Bisogna individuarli, bisogna indovinarli. Spesso Molière inserisce dei personaggi a cui mette in bocca sproloqui privi di senso. Quei pezzi, se li reciti così come sono, non valgono nulla, bisogna distruggere e reinventare lo sproloquio, ritrovare la fonetica di queste cose che ne restituisce il senso originale. Bisogna capire che l’intento di questi autori era quello di essere annoverati tra i letterati, per cui inserivano le parole anche dove non ce n’era necessità.
A.P.: La consuetudine del grammelot viene dai comici italiani a Parigi?
Fo: Certo. Non si trovano testi in cui si parla di “grammelot”, ma si trova lo sproloquio nei canovacci. E’ necessario avere una chiave di lettura. Per esempio, quando si trova: “… e qui, lazzo”, bisogna fare una ricerca sul repertorio dei lazzi. I clown nel loro repertorio hanno il lazzo del palloncino, il lazzo della caduta, il lazzo dello scoppio dietro il sedere, il lazzo del bere l’orina invece del vino, il lazzo della mano sotto la giacca e quella ingessata di sopra, il lazzo del nano (quello dove c’è un altro che con le mani tiene le scarpe). Quando tu ti trovi davanti “lazzo” devi inserirlo nella situazione. Per esempio: l’Arlecchino chiamato per cavare un dente al Magnifico. Il Magnifico è il dottore e nello stesso tempo è il nobile di casa che si è innamorato di Isabella, e tutti fingono, per allontanarlo e fare in modo che non si avvicini ad Isabella, che gli “pute” il fiato. Tutti fanno finta di vomitare, e lui: “ma cos’ho?”, e gli altri: “ma che puzza, che sozzume! Ma cos’è, cosa non è, sarà il mangiare!”. Si mette a dieta. Poi ci sono due lazzi: o comincia a mettersi a dieta e lui non mangia più nulla e però gli fanno sentire soltanto i profumi delle cose e gli danno da mangiare delle sbobbe, mentre tutti mangiano cose incredibili e gli dicono: “no, tu devi sentire solo il profumo, e vino non ne puoi bere…” Poi c’è l’altro lazzo: “ti pute il fiato perché hai un dente guasto, che schifo!”. Bisogna cavargli un dente. Togli il dente e la puzza non c’è più. E allora trovi ad esempio l’Arlecchino (che a quel tempo non è ancora il comico, perché il comico è Truffaldino) che arriva emettendo dei suoni bestiali, perché è brutale, parla bergamasco mentre gli altri parlano francese, è di una grossolanità spaventosa, e invece di strappargli un dente gliene strappa dieci. Io conosco il lazzo: gli metti una scarpa in faccia, un piede in faccia per tirare, va giù di testa, gli vanno sopra in due, lo prendono e lo tirano su e si trova sospeso con le due tenaglie. Sono gags stupende, perché gli attori che facevano la parte dei vecchi erano invece giovanissimi e avevano la possibilità di essere appesi al contrario, di fare una piramide verticale con i piedi mentre lui fingeva di tirargli via il piede. Tutti questi lazzi formano un repertorio preciso. In tutti questi pezzi, quelli di Brighella, di Pantalone, i lazzi, ci sono gli sproloqui.
A.P.: quindi ci sono dei personaggi che usano sistematicamente il grammelot, nella Commedia dell’Arte?
Fo: Certo, ad esempio ci sono dei personaggi stranieri (il soldato sciavo, ad esempio) che vengono fatti parlare attraverso una specie di grammelot. Ci sono sproloqui quasi sempre bergamaschi, e poi parole slovene, spagnole con strafalcioni terribili. Si trovano insomma delle cose che sono state ingessate dalla letterarietà del testo, ma che in originale venivano recitate attraverso il grammelot.
A.P.: Certo, scriverli non rende.
Fo: Una volta per fare lo spagnolo facevano “adelante, gira, gando…” che ha il suono, l’andamento, la jota, ed ogni tanto “haja de puta, adelante, caballo…”
A.P.: cabras parolo pale en prado paidios pardas barvas baco…
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[…] ora, in occasione della pubblicazione della conversazione sul Grammelot con Dario Fo, ripresentiamo, a complemento, il saggio di Alberto Nocerino, L’invenzione linguistica tra […]