Si narra che in un tempo molto lontano, nell’antico mondo greco-classico, quando ancora l’umanità viveva nella sua innocenza, l’uomo non conosceva il conflitto interiore e viveva con le divinità un rapporto diretto e quasi umano.
In tale mondo, e più precisamente sulle spiagge di Corinto, accadde che in una notte stellata s’incontrarono due giovani. Irla, una fanciulla di straordinaria bellezza che era intenta a cantare gli inni amorosi di Afrodite, la dea dell’amore nata dalla “spuma del mare” e Acro, uno straniero che da tali acque era appena sbucato sulla costa, poeta e suonatore.
Fatali risultarono per loro l’incontro e le promesse che si scambiarono, con le quali si giurarono eterno amore, ma ad esse si oppose il Fato che, conoscendo l’antinomico destino che li avrebbe allontanati, li mise sull’avviso.
Conosciuta la triste sorte, caddero preda di un indicibile sconforto.
I due sfortunati amanti, non accettando una così tragica separazione, pregarono per l’intercessione di Apollo e di Afrodite, i cui culti erano celebratissimi nella città greca. Chiesero che gli fossero risparmiate tali insopportabili pene d’amore, ma non ricevendo alcuna risposta, anziché accettare passivamente l’ineluttabile divisione, preferirono correre mano nella mano incontro al mare per lasciarsi inghiottire dai suoi flutti, fissando con tale gesto la perfezione del sentimento nell’immutabilità dell’eterno.
Gli dei, che nulla potevano contro il Fato, rimasero colpiti da tanto genuino amore e concessero ai due amanti di essere trasfigurati e vivere per sempre in uno strumento musicale, le cui note avrebbero fatto rivivere la loro passione.
Nacquero così “la Lira” e “l’Arco”. Destinati ad essere inseparabili, poiché l’una non avrebbe avuto significato senza l’altro, per forza di cose complementari, perché solo dalla loro riunione poteva scaturire il suono.
Questo strumento, che dalla Grecia antica si diffuse in tutto il Mediterraneo, approdò alle coste calabresi dove si sarebbe radicato in una forte tradizione.
Avvenne così che, molti secoli dopo, in una specie di “castello”, posto su di una soleggiata collina, vi si recò per un breve periodo tal mastro Bruno, con l’intento di insegnare ai suoi “abitanti” la nobile arte della costruzione dell’antico strumento musicale, “la lira calabrese ad arco”, nome che aveva assunto nel tempo da quelle parti. La sua intenzione era quella di alleggerire e colorare l’atmosfera divenuta in quel luogo greve e pesante.
Nel suo procedere verso il “castello”, mastro Bruno incontrò innumerevoli difficoltà, pareva che qualcuno volesse impedirgli il cammino e dovette superare non pochi ostacoli, facendo appello a tutta la sua forza e al suo coraggio, per giungere alla meta.
Si diceva sottovoce che quel luogo fosse soggetto all’incanto, e in esso si fossero fermati “i passi del tempo”. Lo si credeva popolato da strani esseri animati che erano invisi a tutti e vivevano celati al resto del mondo. I pochi che avevano avuto occasione di avvicinarli non avevano potuto scorgere altro che le sole “mani e robuste braccia”, quasi che non fossero fatti di altra sostanza… né cuore né faccia.
Già al primo incontro, mastro Bruno portò loro il necessario legno, e chiarendone le proprietà e qualità, spiegò come si trattasse di materia ancora “viva” e fosse soggetta alle variazioni di temperatura. Dedicandosi a tal mansione, poté nascondere il grande sgomento e stupore derivante dall’avere innanzi tali esseri, in tutta la loro figura e natura.
Esseri gentili e sorridenti, che parevano contenti dell’inconsueto visitatore che osservavano e ascoltavano con altrettanta curiosità e attenzione, anche nelle sue più tecniche spiegazioni:
“Il legno è prodotto dalla pianta come elemento strutturale, è costituito da fibre di cellulosa trattenute da una matrice di lignina. Le parti che compongono il tronco si possono dividere in: corteccia esterna, corteccia interna, detta anche alburno, in libro, in cambio, in durame, fino al midollo che è la parte centrale…”.
Tutti annuivano a tale lezione, necessaria alla comprensione della vera e propria lavorazione.
A ciascuno fu poi assegnato un massello di legno, dal quale dovevano ricavare quasi l’intero strumento, scavando l’interno e modellando l’esterno.
Si misero al lavoro con buona lena, tanto che nessuno lo intendeva come una fatica anzi, il contatto con tale materia legnosa, a tutti ricordò le esperienze di molti anni prima, quando ancora ragazzini sugli alberi salivano, per giocare o costruire nuove piccole case e tutto aveva una sua diversa natura come gli alberi animati e parlanti, ai quali ci si rivolgeva per essere difesi, magari da altri immaginari fantasmi. Erano “gli occhi del bambino” che riponevano nella natura la massima fiducia. Non si erano ancora scontrati con la realtà impietosa e “dura” che li avrebbe trasformati in uomini d’altra natura, capaci di compiere il male.
Nel mentre di una di queste lavorazioni, si venne a creare una strana integrazione tra le mani e la “materia” ad esse soggetta. Materia che dotata di propria volontà e vita guidava le “mani” nel loro lavoro e queste ultime fiduciose ne seguivano l’impulso ricevuto. Allo stesso tempo le “mani” acquisivano un’energia che le rinvigoriva, trovando una nuova “ragione di vita”. Finalmente costruivano qualcosa. A cosa erano servite fino ad allora? Solo a distruggere, il più delle volte, tutto quello che a loro tiro capitava. Erano state forza incontrollata, non malvagia, ma semplicemente non educata e indirizzata.
Con tale imprevisto incontro, in essi albeggiò di nuovo il sorriso, e vissero giornate liete e felici, come non accadeva da molto tempo. L’ “eco” della libertà, con le sue immagini di affetti e luoghi lontani, fu così forte che trasformò quel luogo in “un’isola felice”.
Fu così che giorno dopo giorno, levigata dopo levigata, come la goccia che scava la roccia…quegli esseri seppero trasformare la forza del loro entusiasmo e la fibra del legno in un nuovo perfetto strumento: la lira calabrese.
Quando fu bella e completata, rifinita e lucidata, arrivò il momento per il quale era stata creata.
Legate le “corde” e preparato “l’archetto”, posta “l’anima” sotto il “ponticello” per amplificare le vibrazioni nella “cassa armonica”, si diede il via alla sua prima rappresentazione musicale.
Tutti erano lì a guardare quando… dal movimento dell’arco…. si iniziarono a sentire i primi profondi suoni, che furono ritmati con una maestria tale da fare rimanere prima incantati e poi commossi. Immaginate quando le note, come in fuga, iniziarono la loro folle e danzante corsa, superando sbarre e cancelli e lunghi corridoi, onde di un’inarrestabile marea che tutto travolsero e sommersero.
Immaginate la gioia che portarono in quei luoghi abituati a ben altri rumori di catene, di lamenti, grida di dolore e di disperazione.
I suoni emessi dallo strumento risvegliarono quella forza vitale che trova la sua più immediata espressione nello spirito della musica.
Immensa fu poi la commozione, quando in sottofondo si sentirono le voci dei due giovani amanti che, come un eco nell’eternità, rivivevano la loro infinita passione in quella musica celestiale.
L’aria greve divenne limpida e leggera ed ogni essere ritrovò la gioia nel cuore e riassaporò la libertà del proprio animo.
Da allora la lira con la sua musica allieta le sere e le feste delle genti che vivono sulle rive del Mediterraneo.
* Fiaba tratta da Sono Giovanni e cammino sotto il sole di Grazia Paletta, Loquendo Editrice, 2014
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