Non sono una prostituta. Vorrei dirlo loro ancora una volta, ma ormai sarebbe inutile. E certamente ridicolo.
Li guardo, seduta su questa sedia di metallo laccato crema, scrostata, che mi hanno offerto con magnanimità, li guardo uno per uno: la dottoressa col camice un po’ corto sopra la gonna a pieghe, il poliziotto stanco e annoiato dal profilo anonimo, l’assistente sociale con i grossi occhiali ma carina lo stesso, due infermieri giovani che ascoltano con aria indecifrabile il bla-bla degli altri. Tutte brave persone, perché no?
Fa comodo pensarlo, perché se sono brave e solamente insulse, allora non serve darsi da fare, capiranno da sole. O non capiranno niente, ma lo faranno in modo gentile, cosicché non mi debba sentire un escremento notturno. Non più del sopportabile.
– Risparmia la voce, Alba – mi dico tirando fuori il fazzoletto dalla borsa e soffiandomi il naso – tu non sei una prostituta… forse –
Mi sembra di avere un vuoto mentale spaventoso, come una voragine nera, e stringo forte le mani, anche se non c’è niente a cui ancorarsi. Se sono una prostituta, una prostituta col raffreddore, e forse sì, a giudicare dalle calze a rete e dai calzoncini di raso nero con strass, allora quanti clienti ho avuto stanotte?
Tre? Cinque? Non lo ricordo, non ci riesco, ma basterebbe che contassi i soldi che ho in borsa, anche se adesso non riesco nemmeno a farmi venire in mente se mi hanno pagata tutti e quanto era la tariffa. Bello scherzo, ma, dopotutto, è per cose come questa che sono qui, in un Pronto Soccorso alle due di notte, con un’accusa di offese a pubblico ufficiale che, con un po’ di buona volontà da parte della dottoressa, potrebbe trasformarsi in un breve ricovero in reparto psichiatrico. Ma che ci fa qui l’assistente sociale alle due di notte? Ho letto la sua qualifica sul cartellino che le pende dal bavero della giacca, ma non mi risulta che le assistenti sociali siano in organico al Pronto Soccorso, questa qui deve avere trovato qualche scusa per venirci, magari è un’amica della dottoressa o soffre di insonnia, o ha qualche problema personale. La guardo meglio e anche lei mi guarda, da quei sette, otto metri che ci separano, senza volerlo dare troppo a vedere: non so cosa veda attraverso quegli occhiali che sembrano fondi di bicchiere, certo se li toglie, ha occhi languidi e sperduti e adesso, con il rossetto sbavato e i capelli scomposti…
Magari è l’amante di qualcuno, qui, e stava facendo qualche giochetto. Me la immagino con la dottoressa e mi viene da ridere, anche se da ridere non c’è niente. Lesbiche, hanno il diritto di vivere anche loro. Tiro fuori di nuovo il fazzoletto e me le costruisco nella mente, tanto per far passare il tempo con qualcosa di non angoscioso, in questo squallore bianco che sa di disinfettanti e rapidi dolori.
Me le immagino avvinte nella stanza dove dorme quella laureata, sussultare per lo squillo del telefono che annuncia… me. Sento la loro paura di essere scoperte, additate. Sono abbastanza giovani, meno di me, ma certo più capaci di avere palpiti irrefrenabili… e forse si amano davvero. E se lo sono dette questa notte.
Sorrido al muro screpolato che ho davanti, sentendomi un po’ rilassata per la prima volta in tutto il giorno: lo so che sto costruendo un castello di carte, lo so… lo faccio sempre. Ma è un bel castello, romantico come un film strappalacrime e io sono sempre stata brava a inventare favole, persino a scriverle, forse, anche se con la mia quinta elementare finita a stento riesco a infarcirle di tanti errori da rovinare tutto.
La dottoressa mi viene vicina, all’improvviso, prende una sedia uguale alla mia. La tira, accosta e mi offre un pacchetto di sigarette gualcito come se invece di fumarlo, ci giocasse nella tasca del camice.
Non usa più molto fumare, nel giro, anche le battone ci tengono ai polmoni, ma a me piaceva e così accetto e la guardo.
È stanca, chissà quante ore di lavoro ha sulle spalle, ma tutto sommato tiene e domattina, anzi, stamattina, andrà a casa, probabilmente una bella casa, e si farà una doccia con calma, libera da impegni di lavoro per ventiquattro o trentasei ore, qualcosa del genere.
– Tu non sei matta – dice di colpo con una strana voce roca e un po’ maschile e gli occhi attenti sul mio viso – perché ti sei messa in questo impiccio? –
D’improvviso, la riconosco. C’era lei di turno anche otto mesi fa, sempre di notte. Mi ha ricucita bene quando quella moto mi ha messo sotto e fatto a brandelli il braccio, devo riconoscerlo.
– O almeno, allora non eri matta – sorride appena, cogliendo l’affiorare del mio ricordo – e non credo che tu sia tanto cambiata in così poco tempo –
– Matta solo perché gli ho dato del porco? – chiedo scrollando la testa – forse non lo è? O lo è? Decida lei e poi mi lasci in pace. Ho sonno –
– Anch’io – dice alzandosi lentamente – ma questo non toglie niente alla mia convinzione. Cosa c’è di vero nella storia dell’amnesia? – La guardo dal basso. Carina, pulita, con mocassini costosi ai piedi e un profumo raffinato e leggero che non vuole mettersi in mostra.
– Non ricordo parecchie cose – dico calma – per esempio, quanti mi hanno fottuta questa notte. E non è che sia stato un battaglione, credo –
– Piantala, Alba – dice senza acredine – adesso vedo se mi riesce di mandarti a casa. Il reparto psichiatrico è pieno, e poi non ti compete –
– Potrei dargli una botta in testa, al porco – dico esalando fumo – sono ancora in tempo. Basta il tacco di una scarpa e fa male, sa? –
– Il reparto psichiatrico è pieno – ripete con rara pazienza – e lui vuole darti una mano, non portarti dentro. E se mi costringi, dovrò farti un’ordinanza di ricovero e mandarti in un altro ospedale, lontano quasi cinquanta chilometri. E domani non potresti lavorare –
– Già. Ma sono stanca. Ci tiene tanto a non farmi perdere un colpo? –
Lei sogghigna garbatamente.
– Certo che ci tengo. Devi mantenerti… e poi, a ciascuno il suo compito, e tu sei sempre stata una buona lavoratrice –
– Ma non una prostituta – dico lentamente, scandendo le parole – glielo avevo detto anche allora –
Lei torna a sedersi, spenta la fiammella ironica dello sguardo, mi fissa calma, intensamente attenta.
– Esatto. Me lo ricordo. Ti venni a cercare dopo che ti dimisero dalla chirurgia, una sera… lungo i bastioni. Ero rimasta molto colpita dal suo accanimento nel ripeterlo… e tu eri lì, in prima fila, con un boa di finto struzzo e il sedere quasi nudo. Ho anche aspettato un po’, chiedendomi se farmi vedere… fino a che non sei salita su una Maserati grigia –
– Ma non ero una prostituta – ripeto con la gola stretta e un accenno odioso di affanno – non lo capisce? –
Lei scuote la testa, quasi con rammarico.
– No, Alba. Non lo capisco. Vuoi spiegarti? –
Guardo il poliziotto che ciondola e sta chiaramente facendo il filo all’assistente sociale carina. Bel porco! Lei è di qualcun altro, è tanto chiaro!
– Sì che glielo spiego – dico tornando a guardare la dottoressa – ma non qui. A casa sua, se ne ha una –
Gli occhi le si stringono impercettibilmente e sembrano ridere dietro un velo grigio. È una che ama le sfide, questa, e la cosa mi piace.
– Certo che ce l’ho. Ma tu mentirai di nuovo –
Faccio di no con la testa e, di colpo, mi sento stanchissima e mi viene in mente che non mangio da almeno dieci ore. L’ultimo ricordo che ho, è di un caffè solubile in piedi, nella mia cucina, camera da letto, bagno, con la tazza in una mano, una calza scompagnata nell’altra e i bigodini in testa che tiravano e facevano male. Era primo pomeriggio, ma annottava lo stesso sui pratoni spelati assedianti il mio condominio giallastro, e io guardavo dalla finestra aperta le spirali di nebbia risorgere sornione dai fossi, e pensavo che quando fossi tornata a casa, verso le sei del mattino, sarebbero stati immensi manti funebri bianchi stesi su tutto. E pensavo che con due passi in più ben scelti…
– Sei molto stanca, vero? – chiede dolcemente la dottoressa – vuoi un caffè? C’è una macchinetta dietro l’angolo –
Lo stomaco mi si rovescia e stringo forte i denti per resistere.
– Vorrei una pastasciutta – dico quando riesco ad aprire nuovamente la bocca senza pericoli – fa tanto casa e famiglia e lei le ha certamente tutte e due. Sa cucinare? –
Sorride in modo strano, si alza e va a confabulare con il poliziotto che, lentamente, stringendosi nelle spalle, arretra, lanciandomi un’occhiata cupa. Lo capisco, poveraccio. Gli ho fatto perdere stupidamente quasi tutta la notte e magari lui non è un porco per niente, e la mano gli è scivolata laggiù solo perché mi dibattevo come un’anguilla, mordendo e sbavando sulla mia preziosa dignità di essere umano.
L’assistente sociale carina sbadiglia, dice qualcosa a voce molto bassa e la dottoressa le dà un buffetto sul braccio poi l’accompagna per un pezzo di corridoio, fino alla svolta. Non si toccano più e, naturalmente, non si baciano, e io sono sempre più convinta che siano una coppia clandestina e mi fanno una grande, stupida, inutile, non richiesta tenerezza.
– Vieni a metterti un po’ giù in astanteria – dice l’infermiere più giovane, una specie di nero e bel saraceno in deciso contrasto con il biancore lindo del camice, comparendomi accanto come un’ombra dagli occhi lucenti – la dottoressa ti visita appena può –
Lo seguo dentro una stanzetta spoglia e mi raggomitolo su un lettino da ospedale, duro e immacolato. Da fuori, filtrano rumori intensi, voci alte e concitate, probabilmente c’è in arrivo qualche ferito, magari roba grossa da incidente stradale, e tutto lo staff del Pronto Soccorso sarà impegnato per ore. Anche Camilla… si chiama così la dottoressa, adesso mi è tornato in mente.
Camilla come camomilla, diceva sempre Delia di una nostra amichetta, e rideva del suo innocente, ripetuto, povero scherzo, ma anche a me quel nome suona bene, rassicurante, non aggressivo, un po’ demodé, come i mocassini e la gonna lunga a pieghe. Un nome che è un programma. Mi addormento sulla coperta ruvida che mi punge le guance e le gambe, e sogno la notte appena trascorsa, i ponti bui della ferrovia, i fuochi, le ombra scintillanti delle compagne, calze nere e bustini da cui sporgono i seni mostrati, sciarpe di finta seta svolazzanti nella brezza fredda, le automobili mollemente ronfanti nel loro lento, sornione moto di avvicinamento come enormi gatti d’ombra ingannevolmente amichevoli, le risate isteriche di Giulia, il borbottio ininterrotto e ossessionante della vecchia Clara che mostra valorosamente carni sfatte che nessuno vuole più… e poi… la paura, quella paura densa di ogni sera, prima di uscire di casa, e la sicurezza che, presto, appena arrivata allo stradone, vedrò la mia faccia che tremola capovolta nell’acqua del canale, la mia faccia con dieci anni di più, o di meno, non riesco mai a capirlo perché quel sorriso sulle mie labbra senza trucco non è il mio ma lo conosco, e non è un sorriso di gioia, ma il ghigno di un’annegata.
Però nel sogno tutto è più facile, all’improvviso: esco di casa volando e non strisciando, e gli uomini sullo stradone sono solo… solo sagome di legno, senza pene e senza voce per chiedere nulla, spaventapasseri innocuamente protervi che possono terrorizzare solo una bambina.
Ma… se io lo fossi, una bambina? Se tutto il nocciolo della questione fosse qui? Se non fossi mai cresciuta? Ah, bello! A quest’ora sarei ancora a spasso lungo i canali argentati in mezzo alla pianura verde, sotto quel gran cielo cilestrino e curvo, steso come un velo di garza finissima sopra le cose, tutto intento ad inondarle della sua luce delicata, sognante, pura, capace di ammorbidire ogni dissonanza e di rendere belle anche le tozze torri metalliche dello zuccherificio.
Se fossi una bambina, allora non sarei una prostituta. Non potrei esserlo, perché una bambina non sa quello che fa, mai. E può dimenticare e ricominciare. Se fossi una bambina, allora si spiegherebbe come mai dico sempre quella frase e la penso, anche, e addirittura la grido, qualche volta. La grido o sogno di gridarla mentre loro mi stanno sopra, ansimanti e imbestialiti, e io dico “cocco, tesoro, sei proprio uno schianto, il meglio di tutti”.
Non sono una prostituta.
Sento le lacrime che spuntano e vogliono svegliarmi e lotto per non farlo, per continuare a camminare in equilibrio sul bordo dei canali come se danzassi per mano a una signora pallida e gentile che indica col dito le lontananze brumose dalle quali mia sorella Delia non tornerà più. Lei mi ha lasciato da molto tempo e io la sento ancora e la vedo, mentre mi dice che andrà alla ventura come se mi dicesse che vuole andare al cinema, e aggiunge che per quelle come noi non c’è scelta. Ha le lacrime agli occhi, ma lo ripete, mentre depone sul bordo del canale le cose che vuole lasciarmi… e io provo a farle capire che si sta sbagliando, che quello non è il cassettone della nostra camera nella casa da tempo venduta. Ma Delia non ha tempo, né pazienza per ascoltarmi, e io riprendo a danzare e sono sola, nel cielo di garza, nel silenzio, con l’eco del treno passato da minuti ancora nelle orecchie come il canto di una sirena… e mi sento leggera, mentre l’acqua riflette la mia faccia, la mia strana faccia che somiglia a un’altra e sembra dire qualcosa di grave, chiamare affannosamente da tanto lontano.
Cosa vuole Delia, adesso? Non vede che sto giocando?
Tengo le gonne sollevate perché si vedano, perché il cielo e l’acqua le vedano, le bellissime mutande rosa che lei mi ha lasciato, con il pizzo intorno e una margherita ricamata a mano su ciascun lato, e mi sento stupenda come la protagonista di un film… anzi, di più, perché tutta la pianura mi guarda in silenzio, approvando.
Amo moltissimo le mie mutande rosa, le trovo seducenti, eleganti, le lavo ogni sera teneramente e le stendo con cura, sicura come sono che le abbronzate, rudi bambine della cascina, quelle stesse che non giocano mai con me perché sanno che andrò via presto, di nuovo in Istituto, ora che Delia non viene più a prendermi, me le invidino in silenzio e implorino le loro madri di farne un paio uguali. Non ce ne sono in giro così, bisogna proprio confezionarle, come ha fatto Delia… che non scrive mai.
Le lacrime non riescono a svegliarmi, sono più forte di loro, ma Camilla è più forte di tutti e non ha dubbi, né tempo. Mi scuote, mi parla, mi mette in mano un bicchiere di caffè dolcissimo.
È mattina, intorno alle otto, il turno di notte è finito, e lei se ne sta lì, paziente ma non troppo, inappuntabilmente vestita di blu, tailleur blu, scarpe blu, una sciarpetta di seta bianco azzurra intorno al collo un po’ sfiorito, sotto i capelli biondo scuro raccolti in una piccola coda ricurva da un bel fermaglio di tartaruga.
– Su, coraggio – dice con quella luce dolce ironica e ferma negli occhi – non eravamo d’accordo? –
Deve essere matta. Matta quadra. Ma che ci perdo? Se vuole qualche servizio sostitutivo della bella assistente sociale, per me va bene, l’ho fatto, qualche volta. O c’è anche l’altra, nella casa?
Divertente situazione, per una che non è una prostituta.
La seguo docile, sentendomi come se avessi ancora le mutande rosa. Chissà cosa dirà quando le vedrà? Deglutisco stringendo i denti, lottando per ritrovare il controllo. Scema di un’Alba. Piantala! Le mutande rosa non le vedrà più nessuno perché ormai sono solo fili di cotone marcito mescolati alla terra e all’acqua, come il corpo di Delia. E questa qui non vuole far altro che la buona samaritana e giocare a sentirsi audace e disponibile, tra meno di un’ora mi butterà fuori con una valanga di buoni consigli e magari con qualche soldo, e io tornerò a casa a piedi o con la metro, dipende da dove mi trascina adesso, sentendomi un escremento notturno che, per gioco, qualcuno ha esposto alla luce del mattino.
Attraversiamo la città sulla sua due posti, con il vento addosso.
Le vie sono rosa, allegre, quasi belle. Sarà una splendida giornata, anche se la notte che l’ha preceduta è stata schifosamente fredda, così fredda che mi sono dovuta fare due o tre bicchierini da Ottavio, sotto il ponte della ferrovia, io che non bevo mai.
Strano quante cose stia ricordando adesso: stringo le mani intorno alla mia borsa di finto coccodrillo e penso che l’incasso deve essere stato buono, ma non l’apro per controllare. Mi hanno pagata tutti, uno mi ha dato persino un extra perché ero stata “brava”.
Mentre rivedo quel pancione bianco che sussulta su di me, Camilla frena e scende in fretta, facendomi segno di seguirla, e siamo arrivate. Esattamente dove mi aspettavo: casa borghese, elegante, ovattata, ordinata, probabilmente pulitissima.
– Davvero vuoi una pastasciutta? – chiede Camilla gettando la giacca su una poltrona bianca – non sarebbe meglio cappuccino e biscotti? Lo dico per te, nel frigo c’è dell’ottimo ragù bello e pronto –
La guardo senza capire e lei si mette a ridere.
– Eri leggermente bevuta, questa notte – dice quasi con aria complice, e poi sparisce con qual suo passo danzante che le fa oscillare le pieghe della gonna intorno alle gambe snelle, su per una scala di legno lucido che si attorce su se stessa verso un grande soppalco coperto di moquette grigio argento. Comincia a spogliarsi come se avesse una gran fretta, andando di qua e di là, tra letto e armadio e una porta che vedo appena, con una scheggia di bianco lucido che deve essere l’angolo di un lavandino.
– Vai pure in bagno – dice dall’alto – prima porta a destra. Fa la doccia o quello che vuoi. È tutto pronto. Io mi cambio –
Eseguo, trasognata, mentre lei, sempre librata in alto come una bizzarra e leggera divinità, parla fitto al telefono con qualcuno.
Non capisco una parola, ma sono ugualmente certa del soggetto della conversazione e dell’interlocutore, e mi avvio verso il bagno con le spalle rigide, sentendomi un fenomeno da baraccone, una scema che dappertutto dovrebbe essere meno che qui.
Potrei sgattaiolare via, ma non ci riesco. Mi siedo sul water a pensare, a sentire i rumori e gli odori della casa, e lei mi parla sommessa, mi chiede qualcosa… non capisco cosa, so però che non è niente di cattivo e penso che, magari, i mattoni con cui è stata costruita sono stati cotti dalle mie parti… perché no? Ci sono le fabbriche di mattoni da noi, e poco altro, perché non potrebbe essere? È così scemo come pensiero? È così umiliante voler restare a tutti i costi e non sapere perché? O saperlo disperatamente bene?
Quando mi decido ad uscire, con i capelli umidi, senza più un filo di trucco e ridicolmente rivestita dei miei panni notturni da pantera di serie C, Camilla ha indosso una gonna beige e un costoso e innocente golfino rosa e sta versando il caffelatte in grandi tazze di porcellana traslucida a tenui decori floreali vecchio stile, come quelle che si vedono solo nei più eleganti negozi di cristallerie del centro.
– Allora – dice, sedendosi e afferrando un biscotto – vuoi dormire ancora un po’, o vuoi parlare? Guarda che c’è tempo per tutte e due le cose, se ti va –
– Parlare di cosa? –
– Delle mutande rosa, per esempio – dice quieta – di com’erano belle e uniche. O dei canali con il cielo di casa tua dentro. Di quello che cercavi danzando sull’acqua. Di quello che vuoi, insomma… magari anche di me. Non deve essere necessariamente un monologo –
La guardo fisso, serena com’è, improbabile, eterea come un sogno pronto a svanire al battito delle ciglia, e lei sorride facendo tante rughette attorno agli occhi stanchi, troppo sbiaditi per essere veramente belli eppure… bellissimi, come quel cielo lontano.
– Certo, tu non sei una prostituta e io non sono una strega che di notte ruba i sogni – dice addentando il biscotto che si sbriciola appena sulla tovaglia bianchissima – ma mettendo insieme i nostri non essere, potremmo combinare qualcosa di buono. Mi sei simpatica, Alba, e qui ci sono tanta solitudine e tanto spazio –
– Mi stai invitando a vivere con te? –
Tende la bella mano curata e mi sfiora, appena appena, il braccio piegato.
– Ti sto invitando a una sosta – dice piano – solo a una sosta, per ora. Le bambine sono stanche, quando camminano tanto tempo senza fermarsi mai. Hanno le gambe corte e il cuore piccolo e così pieno di sogni da non riuscire a ricordare niente… nemmeno la strada per ritornare a casa –
Sorride mentre io piango, e prende un altro biscotto con aria affamata, allegra.
– Su, Alba – dice con sbrigativa dolcezza – bevi il latte. Avremo tempo per parlare di tutto, se lo vorrai, anche di… lei. Adesso vado al mercato rionale, è martedì, sono libera e voglio comprare un enorme mazzo di narcisi. Vieni anche tu? Ti presto un vestito… –
Squilla il telefono e lei vola via mentre la luce scivola sul tavolo, tra le porcellane, e sembra il riflesso delle mattine di primavera sull’acqua dei canali, una vita intera fa.
[…] proposta letteraria associata è un racconto di Elena Agostini, pubblicato nel babau n.13: Alba, questa volta il nome […]