Dire intorno a “Griselda” – di Fabrizio Chiesura (Il babau n.13)

In una giornata ormai invernale dell’ottobre 1350, alla luce incerta del crepuscolo, il poeta laureatus Francesco Petrarca, entrando dentro le mura di Firenze, vede avanzarsi quasi di corsa un uomo che gli rivolge un saluto festoso e reverente; quel fervido ammiratore si era fatto precedere non dalla sua già abbondante produzione volgare, a suo parere indegna di venir sottoposta al letterato illustre, ma da un carme haud ignobilis col quale rendeva omaggio alla grandezza, sensibilissima alle lodi, del celebre intellettuale e si proclamava suo discepolo. Con questa iniziativa Giovanni Boccaccio dà inizio a un’amicizia salda e profonda alla quale, come ha scritto Giuseppe Billanovich, era stato attratto, più che dalla lusinga di un’alta fama, da affinità essenziali nonostante le dissomiglianze fin troppo palesi.

Nei primi mesi del 1373 qualcuno a Padova fece giungere una copia del Decameron sullo scrittoio di Petrarca, che, in un’epistola scritta a Boccaccio intorno al marzo 1373, così racconta fra l’altro:

…, come spesso avviene a che esamina in fretta, ho ispezionato con maggior cura l’inizio e la fine del libro”.

E prosegue:

Nel principio, a mio parere, hai fornito una narrazione appropriata e un grandioso lamento della situazione della nostra patria al tempo, riconosciuto come il più luttuoso e misero, di quella tremenda pestilenza. Alla fine, invece, hai collocato l’ultima novella di gran lunga differente dalle precedenti;

La novità di Griselda, certo. La novella di Boccaccio provoca sconcerto per i sentimenti estremi, assoluti e, quindi, disumani dei due protagonisti Gualtieri e Griselda, e per la conseguente situazione paradossale della vicenda; un’impressione fors’anche suggestionata dal giudizio espresso dal narratore della medesima, lo scanzonato Dioneo. Ma il racconto in questione funziona come modello esemplare se valutato nell’organismo complessivo del Decameron: il finale dell’opera dev’essere alto, sublime, tragico; come Dante inaugura l’ultimo canto del Paradiso con la preghiera alla Vergine e Petrarca termina la sua raccolta di versi con la canzone alla Vergine, così Boccaccio conclude le cento novelle con una Vergine terrena (le spie linguistiche mariane e scritturali sono palesi), perfettamente consona allo sviluppo ascensionale della commedia, ma poco comprensibile e accettabile se valutata al di fuori del suo contesto.

Petrarca sembra non capire: “Alla fine, invece, hai collocato”, dice.

Ma subito sotto avverte: “la novella mi é piaciuta e mi ha avvinto al punto da volerla imparare a memoria,”

E rincara la dose: “nonostante le mille preoccupazioni che mi facevano quasi dimenticare di me stesso,”

E precisa: “perché così potessi ripeterla dentro di me non senza godimento e caso mai recitarla, come si fa alle volte, tra amici”.

Petrarca dice: “perché così potessi…”

Impiega un “così ”ambiguo e, forse, giustapposto a “invece” di “Alla fine, invece, hai collocato…” .

Come dire che Petrarca elide perché ha capito il messaggio ascensionale di Griselda: e, dunque, l’ha mandata a memoria.

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