Il Cuore – di Mauro Augias (Il babau n.12)

Qualcosa interruppe il sonno inquieto di B.

L’uomo faticosamente si svegliò e aprì gli occhi, ma l’inevitabile stato di torpore in cui si trovava non gli permise di capire subito ciò che stava accadendo.

Passò qualche istante, poi avvertì la brusca successione di scosse prodotte dalla forza d’inerzia, accompagnata dal rumore stridente e fastidioso dei freni: la locomotiva stava inaspettatamente fermandosi.

Guardò l’orologio: erano le nove e venti.

Sforzandosi di vincere il sentimento d’impazienza che già stava montando dentro di lui, si alzò e tiro giù il finestrino. Un soffio di vento gelido entrò nella carrozza. Fuori intravide la stazione di T.

Faceva freddissimo quel dicembre, e tutto attorno a lui fino alle montagne lontane sembrava stretto in una morsa di neve e ghiaccio.

Sul marciapiede scorse solo il capostazione che scuoteva ripetutamente la sua paletta, infagottato fino al collo in un pesante cappotto, e con un berretto di lana ben calcato sulla testa al posto del rigido berretto d’ordinanza. La sua agitazione aveva un che di vagamente comico, ma B. in quel momento non aveva alcuna voglia di ridere, e sul suo viso comparve una smorfia di irritazione.

Non era certo previsto che il diretto di fermasse in quella sperduta stazione di montagna. E come a confermare i suoi sospetti udì dei vivaci commenti levarsi dai finestrini adiacenti. Poi la porta del suo vagone si aprì ed entrò il controllore, un uomo alto e magro.

C’è un guasto alla locomotiva – esordì l’uomo senza preamboli – dobbiamo fermarci forse per un paio d’ore.

Il tono professionale con cui aveva parlato non era esente da una punta d’imbarazzo.

Un guasto? Che genere di guasto? – chiese B. con tono apertamente irritato, quasi avesse appena ricevuto un insulto.

Guardi per la verità non lo so esattamente neppure io, non c’è stato il tempo di verificarlo. Il macchinista mi ha appena assicurato che al massimo dovremo fermarci un paio d’ore, ma probabilmente assai di meno – rispose il controllore con tono calmo e cortese, facendo finta di niente di fronte ai modi sgarbati di B.

Più di un’ora? – sbottò B. – Ma è un’eternità!

E si fermò come se attendesse un’ulteriore conferma, una precisazione.

Come le ho detto due ore è il limite massimo previsto per la riparazione del guasto, in ogni caso lei capisce che non possiamo continuare arrischiando la sicurezza dei passeggeri…

Certo, certo – concluse B. con tono ormai più calmo, rendendosi conto di avere esagerato.

Il controllore senza aggiungere altro proseguì nel vagone successivo.

B. fece qualche respiro profondo per calmarsi e si sedette, guardando meccanicamente fuori dal finestrino. Poi si passò le mani sul volto, pensando a quello che gli avevano raccomandato i medici dopo la sua ultima operazione al cuore; doveva sforzarsi di rimanere tranquillo ed evitare ogni occasione di tensione, se non voleva complicare il suo processo di guarigione, ma tant’è.

Aveva poco più di quarantanni ma dal viso sembrava ne dimostrasse parecchi di meno. I tratti rilassati del volto con gli zigomi e il mento delicati, contrastavano in modo singolare con lo sguardo severo, e d’altra parte quelli conservavano qualcosa di inesprimibilmente ambiguo. Egli talora aveva l’aria di un ragazzo precocemente invecchiato, piuttosto che quella di un uomo maturo che avesse conservato lineamenti giovanili, e B. aveva la sensazione che gli altri cogliessero questa differenza.

Si alzò di nuovo, guardando fuori alla finestra in preda allo sconforto.

Era indeciso sul da farsi, ma di certo non poteva neppure pensare di passare due ore da solo in uno scompartimento. Doveva trovare un modo per distrarsi. Si rimise il cappotto e si diresse verso l’uscita.

Sul marciapiede battevano raffiche di vento gelido. Si abbottonò il cappotto passandosi la sciarpa sul collo. Notò che non era sceso quasi nessun altro dal treno. Si mise subito alla ricerca di un bar, anche se in una stazione così piccola non era neppure così sicuro di trovarlo.

E invece lo trovò; faceva anche da edicola.

Acquistò un paio di quotidiani e un settimanale, poi si spostò all’altro capo del bancone, dove veniva servito da bere. Ordinò una cioccolata calda e si sedette in un angolo.

Si tolse il cappotto e lo depose sulla sedia a fianco, lasciandosi la sciarpa, solo un po’ più allentata. Poco dopo il barista gli portò la cioccolata. Ne sorseggiò un po’, poi diede un’occhiata ai giornali. Qualche tempo dopo però li mise da parte, annoiato più che mai. “Politica” pensò con disprezzo, “solo pettegolezzi in grande stile”. Si mise più comodo sulla sedia continuando a sorseggiare la tazza di cioccolata.

Cominciò a guardarsi attorno oziosamente.

Il bar era stato costruito nello stile tipico di quei luoghi. Era fatto praticamente tutto in legno, con qualche stampa alle pareti, di soggetto montano o di caccia. C’era una numero discreto di persone, considerata l’ora, e i più giocavano a carte tra loro, parlando a voce bassa.

D’un tratto la porta del bar si aprì ed entrarono due uomini imbacuccati fino ai denti. Aguzzò lo sguardo quando si accorse cosa portava il più alto dei due sotto il braccio: una scacchiera. Immediatamente l’attenzione di B. si destò, dimenticandosi di tutto il resto.

I due si sedettero ad un tavolino e subito, come ad un segnale convenuto, alcuni che stavano ancora giocando deposero le carte, si alzarono e si avvicinarono per seguire la partita.

Anche B. non poté fare a meno di alzarsi; ora aveva trovato il modo per passare il tempo.

Notò subito che i due non giocavano affatto male, nonostante fossero chiaramente dei dilettanti. Il bianco aveva impostato una classica apertura spagnola e ben presto si trovò in netto vantaggio. La partita si concluse vittoriosamente per lui dopo una quarantina di mosse.

I due giocatori stavano rimettendo a posto i pezzi quando B., tra il lieve brusio dei commenti che seguirono, non riuscì a trattenersi dal parlare.

Scusate signori, dopo la fine della prossima partita della partita potrei giocare con il vincitore?

Oh, prego – e così dicendo l’uomo che aveva perso si alzò per fargli posto – intanto oggi non sono granché in forma – aggiunse sorridendo.

B. non se lo fece dire due volte e si sedette, ringraziandolo.

Sorteggiarono il colore e a B. toccò il bianco.

Aprì con il pedone di re e impostò anch’egli una spagnola, con la differenza che continuò con la variante di cambio.

Attorno a lui sentì progressivamente concentrarsi l’attenzione degli spettatori.

Condusse la partita con molta aggressività, forzando anche lo schema di gioco che aveva assunto, e con un brillante sacrificio di cavallo alla venticinquesima mossa ottenne un decisivo vantaggio posizionale. Il nero giocò ancora qualche mossa, finché preso atto che la situazione era ormai compromessa, ebbe il buon senso di arrendersi.

Ciò confermò B. sulla buona levatura del suo avversario, dato che i dilettanti più deboli di solito non avevano mai sufficiente esperienza da riconoscere la sconfitta e le partite finivano così per trascinarsi fino all’ultimo, rendendo i finali terribilmente lunghi e noiosi.

La gente attorno a loro, dopo il silenzio di prima, parlava ora ad alta voce, commentando l’esito della partita. Evidentemente erano stati molto colpiti dal gioco brillante di B.

Avete vinto, complimenti – disse il suo avversario con sincera ammirazione – ma come avete fatto con quel cavallo? Non me l’aspettavo proprio un sacrificio in quella situazione.

– Già, me ne sono accorto – disse B. sorridendo.

Ora si trovava perfettamente a suo agio. Ogni traccia di irritazione era scomparsa, e si sentiva disteso e leggero. Nella gioia della lotta ogni tensione precedente era stata assorbita. Aveva completamente dimenticato tutti suoi problemi di salute e non gli importava neppure più del treno. Per lui il mondo ormai era solo la scacchiera e il suo avversario.

Volete provare a giocare con il bianco?

D’accordo!

Ricominciarono a giocare. S’era fatto di nuovo silenzio intorno a loro.

B. all’apertura del re del bianco rispose con la variante del dragone.

L’avversario, reso più cauto dalla sconfitta precedente, giocò con maggiore prudenza ma questo non cambiò l’esito della partita, e, dopo un brillantissimo sacrificio di regina, B. batté il suo avversario con un matto “affogato” alla trentacinquesima mossa.

L’uomo che aveva battuto e la gente attorno al tavolo lo stava guardando come un fenomeno. Qualcuno, superando la timidezza, gli si avvicinò facendogli i complimenti e stringendogli le mani.

Giocò altre altre partite, altri giocatori si alternarono al tavolo. Li batté tutti, in una girandola di sacrifici, combinazioni, tatticismi funambolici, destando l’ammirazione di quegli appassionati dilettanti.

Quando l’ennesima partita fu terminata il suo avversario di turno gli chiese se fosse un professionista. B. rispose che lo era stato fino a qualche anno prima, ma che ormai non frequentava più tornei. Alla fine smisero di giocare e B. si alzò dal tavolino. Tutti gli stavano d’appresso facendogli mille domande, come ad un divo del cinema. Mentre parlavano qualcuno osservò che doveva essere meraviglioso avere tale capacità.

Oh, beh – rispose B. guardando il suo interlocutore in modo strano – se ci mettete anche uno studio interminabile, sacrifici di ogni genere, solitudine… Beh, allora, certo, essere buoni giocatori può essere meraviglioso…

L’altro lo fissò, mostrando di non capire.

E B. continuò con tono didattico e distaccato, quasi parlasse di qualcosa che non lo riguardava.

Per ottenere risultati che vadano più in là della mediocrità, bisogna studiare quattro cinque ore al giorno… e giocare altrettanto e più con avversari sempre diversi. Gli scacchi devono diventare l’oggetto principale della vita quotidiana, ad essi si deve saper sacrificare tutto, altre passioni, affetti…

Vuol dire -interloquì un giovane biondino con tono chiaramente scettico- che non si potrebbero neppure coltivare amicizie, amori, farsi una famiglia…

Oh, no di certo, ci sono stati anche grandi scacchisti con famiglie a carico -e qui tutti non poterono fare a meno di notare una sfumatura sprezzante della voce- ma si deve sapere che ciò può avvenire solo a danno della propria più intima vocazione; si deve pagare un prezzo per essere bravi.

A quelle parole asciutte e severe le facce dei suoi interlocutori si mostrarono già meno entusiaste. Un evidente imbarazzo iniziava a circolare tra di loro.

E lei ha accettato di pagare quel prezzo? -chiese con tono esitante il giovane di prima.

Avete visto come gioco, traetene le conseguenze.

Improvvisamente qualcosa nell’atmosfera cambiò.

Nessuno sembrava più aver voglia di fargli tante domande e B. tuttavia continuò a parlare, come se gli fosse toccato un compito sgradevole ma doveroso.

Voi vedete il risultato ma ben pochi sanno come ci s’arriva – continuò, quasi rivolgendosi più a se stesso che agli altri, mentre una nota di severa malinconia velò inequivocabilmente la sua voce.

Bisogna darsi completamente al gioco, a tutto ciò che di futile e fatale esso esprime; occorre essere in grado di calcolare molte varianti, sapendo però che non si può calcolare tutto e che alla fine, comunque, ciò che decide è lo scatto di un’intuizione, incalcolabile per definizione. Dobbiamo aspettarci avversari spietati, decisi a batterci, e a questo proposito non crediate a ciò che si racconta sul rispetto dell’avversario o cose simili. Sono solo fandonie: un avversario dev’essere odiato col cuore, ma soprattutto col cervello. Stringetegli pure le mani prima e dopo la partita, diventate pure amici se vi sembra il caso, ma nel momento in cui giocate dovete avere per esso un’ostilità fredda, impietosa. Il rispetto per esso può nascere solo dal rispetto per la sua capacità di batterci e non certo dalla sua astratta umanità. È solo così che dimostrerete di prenderlo sul serio. -poi si fermò, come stesse pensando a qualcosa che non potesse o volesse dire.

E alla fine comunque -concluse- chi vince rimane più solo, ogni vittoria rende più soli, bisogna sapere anche questo.

Ora il silenzio s’era fatto totale. Mentre finiva di parlare s’accorse ch’era passato molto tempo. D’un tratto B. si ricordò del treno. Allora salutò in fretta gli avventori, pagò e si precipitò fuori.

Il treno si stava allontanando proprio in quel momento, ma ce l’avrebbe fatta a prenderlo se non fosse scivolato banalmente sul ghiaccio del marciapiede d’aspetto. Quando riuscì di nuovo a mettersi a correre l’ultimo vagone era ormai irraggiungibile.

Si scrollò la neve di dosso. Era stranamente calmo, e si guardò attorno. Si accorse solo in quel momento che nel tentativo di raggiungere il treno era uscito dalla stazione. Senza una ragione particolare decise di non ritornare sui suoi passi e imboccò la strada che fiancheggiava la ferrovia.

Fatti pochi passi s’accorse che la strada portava alle case del paese, distanti un centinaio di metri più sotto. Alla sua sinistra invece, a meno di mezzo chilometro oltre la piana desolata che fronteggiava la stazione, cominciava una foresta di abeti che si stendeva a perdita d’occhio.

Senza sapere perché si diresse verso di essa. Le sue gambe sprofondavano pesantemente nella neve. Respirava a fatica ma si sentiva stranamente sereno. A metà strada circa si fermò, unica macchia nera su quel candido lenzuolo. Da lì il paese e la stazione sembravano completamente disabitati, come fossero le oziose costruzioni di un gigante annoiato, pronto ad annientarle al minimo capriccio.

Era solo, completamente solo, e mentre il tempo gli sembrava sospeso in una immobilità assoluta, gli parve di essere diventato lui stesso un elemento della natura. Ripensò a sé, alla sua vita. Tutto gli balenò davanti istantaneamente. E in quel coacervo di fatti, dolorosi e confusi, gli parve tuttavia di scorgere la presenza di un filo d’acciaio che li inanellava tutti, conferendogli una misteriosa unità.

Tutto ciò che doveva fare l’aveva fatto, non poteva avere rimpianti.

Sì, era solo, assolutamente solo al mondo, ma alla fine il mondo era lui stesso e niente poteva incrinare il cerchio di quella metallica consapevolezza.

Si guardò attorno: sì, tutto era perfetto nonostante tutto.

E in quel momento gli parve di udire le onde dell’immenso dolore umano frangersi impotenti e rabbiose su coste remote, lontane dal cuore indistruttibile dell’essere. Avvertì il battito del proprio cuore, ora non più incerto, e gli sembrò che questo e quello battessero all’unisono in una perfetta simmetria, piena di grazia e di potenza.

Un grido si levò improvvisamente dalle profondità di quella distesa d’abeti, interrompendo i suoi pensieri.

Che cosa era? Presto lo avrebbe saputo.

E sorridendo ricominciò a camminare verso la foresta.

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