La notte in cui è scoppiata la guerra – di Tommaso Blocco Sigieri

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L’ultimatum scade questa notte. Nessun telegiornale promette soluzioni. Televisioni e radio sono rimaste accese sperando inutilmente di sentire di un accordo o di un cedimento. Andiamo ad un’assemblea che si prepara ad affrontare l’idea di una guerra, di viverla addosso, chi razionato in casa, chi censurato, chi richiamato al Corpo, chi in prima linea col rinvio di studio strappato, chi ricordando vecchi amici svizzeri o canadesi con case di montagna. A mezzanotte si va via. L’aria è serena, ma non è una promessa. Accompagno a casa in macchina Paola e Marina, prima di scendere dicono che si sentono in un incubo, il più terribile incubo della loro vita. Respiro a lungo: finché nessuno spara, non è ancora niente. In ogni caso, voi non andrete al fronte, dovete essere più calme. Per tutta la settimana nei supermercati persone anziane esaurivano le scorte di zucchero, olio, sale, pasta, latte: non trovavo neppure più sapone e detersivi, mentre le cassiere, tristissime, battevano scontrini lunghissimi e guardavano negli occhi i clienti con disapprovazione. E’ l’una, l’ultimatum è scaduto.

Torno verso casa su strade molto più silenziose del solito. Parcheggio e guardo le macchine ferme in strada: cammino fino al portone con un senso di incredulità. Quando entro in casa chiedo notizie: non c’è nessuna novità, tutti aspettano. Preparo l’ultima camomilla rimasta, e per tentare di dormire leggo racconti umoristici. Spengo la luce e inizio ad assonnarmi. Immagini leggere si accavallano nel pensiero, forse sto iniziando a dormire. Quando mi sveglierò domani mattina tutto questo sogno si sarà dissolto.

Squilla il telefono. E’ lento, gli squilli sono i soliti, leggeri e regolari. All’orologio sono le tre e mezza. Vado a rispondere e sono già rassegnato. E’ Marina: “Sei tu?” – “Si” – “E’ scoppiata la guerra” “Come?” – “Hanno iniziato a bombardare. Da due ore” “Chi, chi ha iniziato?” – “Gli americani”. Metto giù il telefono. Le pareti del corridoio sono sempre bianche, ma non so se riesco ancora a vederle. La televisione non si può usare, tento di fare un caffè, poi mi rivesto. Riprendo le chiavi e corro in macchina, accendo, inizio a correre per la città, incontro altre macchine velocissime, ma sono ritardatari che vanno a dormire adesso. E’ inutile, la città è vuota, allora corro a casa di Marina e Paola, salgo. In casa la televisione è accesa, saluto un ragazzo che non conosco. Paola è al telefono, allarmata. Gli altri guardano la tele, si vedono aerei che bombardano, cartine di Golfo, la sala stampa della Casa Bianca. Un generale sta dicendo che l’operazione è un enorme successo militare. “L’hanno fatto, ci sono riusciti” è la prima frase che sento, poi le altre si accavallano. Seguiamo le notizie, ogni tanto suona il telefono, i dialoghi sono sempre più disperati. Paola telefona a una radio locale, le dicono che in piazza si sta improvvisando un raduno, ci andiamo in macchina ma non è vero, non c’è nessuno.

Improvvisamente mi viene in mente tutto quello che so della guerra. Quella vista in fotografia, quella sentita raccontare, quella vista da militare. Mi ricordo di racconti che avevo sentito da bambino, e che sembravano dimenticati. Il bisnonno, ragazzo del ‘99 e Cavaliere di Vittorio Veneto, raccontava sempre di quella volta che l’avevano mandato a stendere i fili del telefono nella terra di nessuno, e lui aveva allacciato per sbaglio quelli nemici, così i comandanti si erano dati ordini l’un l’altro senza capirsi. Poi di quella notte che era rimasto tagliato fuori all’aperto sotto un bombardamento di cannoni e si era gettato in una buca. Nel buio c’erano un paio d’occhi che lo guardavano. Si erano protetti abbracciandosi e stendendosi insieme tutta la notte nella buca, mentre il bombardamento continuava fino al mattino. Solo all’alba aveva scoperto che l’altro era un austriaco. Non parlava mai, invece, dei morti.

Mia madre che da bambina aveva ascoltato la dichiarazione di guerra alla radio, e suo padre che appende una cartina geografica dell’Europa e guarda sconsolato dicendo “L’Italia da sola, coi Tedeschi, contro tutti questi paesi così grandi, che follia”. Per quella follia non ho potuto conoscerlo. E le armi dei partigiani sotterrate nelle vigne, quando i Tedeschi rastrellavano il paese. Mio padre che per andare a scuola faceva dei chilometri in bicicletta, ogni volta che si sentiva un aereo dovevano nascondersi tutti nel fossato, perché gli aerei inglesi mitragliavano la gente sulle strade. E quando arrivava a scuola trovavano spesso dei bigliettini stampati, distribuiti sui banchi, che invitavano ad aiutare i partigiani, a dare informazioni sui movimenti dei Tedeschi. Solo dopo la Liberazione si scoprì che li metteva un compagno di scuola, col padre comandante partigiano.

Daniel, che da bambino a Washington aveva conosciuto quelli che tornavano dal Vietnam.

Improvvisamente tutto questo non è più un racconto, è attorno a me, da domani mattina può essere per queste strade. E Hatha, che ha avuto la disgrazia di nascere iracheno, abbiamo giocato a calcio e discusso insieme in osteria da studenti, dove può essere in questo momento?

Continuiamo a percorrere le strade in macchina, ora ce ne sono altre con guida nervosissima. Il silenzio è enorme. Non riesco più a fare nulla. Ascolto i discorsi disperati delle ragazze, si incolpano di non aver fatto nulla per impedire di giungere a questo punto. Torno a casa dopo averle riportate alla loro. Quando salgo c’è una luce soffusa per le scale. All’orologio sono le sei. Guardo tutti gli oggetti nella stanza, nessuno mi attira. Prendo il telefono e chiamo mio fratello: risponde subito, è sveglio anche lui. “Sono io, hai visto, hai sentito?” – “Si, abbiamo sentito alla tele e alla radio fino a poco fa” – “Dì a Simona che stia attenta in fabbrica, può succedere di tutto, il sindacato a Roma è stato in riunione straordinaria per tutta la notte, l’ha detto una radio locale di qua” – “Qui non possiamo fare molto altro che seguire le notizie, in ogni caso prima di domani non si farà niente” – “Tieni tranquilli tutti. Se succede qualsiasi cosa chiamami subito” – “Va bene, ma anche tu non preoccuparti. A domani”. Metto giù anch’io il telefono, e tento di tornare a dormire. La sensazione più forte adesso è l’impotenza, la più assoluta e totale impotenza di fronte a quello che accade. Non mi resta che aspettare il giorno seguente.

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