Varie qualità di bestie si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochissimi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
(G. Leopardi, “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”, dalle Operette Morali)
Alma, Folle e Cob vigilavano su Anselmo. Per questo da un po’ di tempo tra loro c’era molta agitazione.
Erano stati Alma e Folle a prendere la decisione di ritornare da Anselmo. Forse per misurarsi tra loro, per far gara a chi si dimostrasse più capace, forse per curiosità. Era la prima volta che tornavano da una persona quando questa fosse già in età adulta.
Alma era particolarmente smaniosa di mettersi in mostra anche se il suo femmineo non inclinava mai alla civetteria; le piaceva piuttosto ornare il suo orgoglio con “dolce incanto di nobili gesti”. Folle avrebbe voluto sempre prendere lui le decisioni importanti e tutto gli sembrava importante. Cob era l’indisciplinato perfetto. Amava veder le cose distruggersi e non si penava (né l’avrebbe mai compreso) per lo stupore altrui. Era Cob il vero responsabile del sonnambulismo di Anselmo, che faceva disperare la moglie. Durante le notti agitate ed inquiete lo prendeva per la mano e lo guidava in tutte le stanze facendogli rompere le manifatture di una preziosa collezione ereditata dai nonno di Anselmo; poi gli faceva tirar fuori ogni sorta di oggetti da armadi, cassetti e scaffali.
In questo modo era cominciato il sostegno in favore di Anselmo. Cob riportava Anselmo tra i giochi dell’infanzia. Scomporre l’ordine con cui vengono riposti gli oggetti per comporre paesaggi fantastici: tavoli altopiani dove prenditegami elicotteri planavano trasportando balle di zucchero; colline tazze sparse su terreni molli materassi intorno a cui volteggiavano e sbandavano macchinine senza ruote.
Solo così Anselmo poteva digerire la sua angusta esistenza attuale. Le bambinerie gli ridavano il sollievo necessario per assolvere la quotidianità incombente.
Alma e Folle, che trattavano così con cura le decisioni su Anselmo, erano colpiti dalla facilità con la quale Cob prendeva le cose. Cob era stato sempre insieme a loro, ma non capiva le recenti ambizioni. Né li criticava, era proprio indifferente. Li aveva sempre seguiti pur facendo di testa sua e così era anche ora.
Dopo una lunga e naturalmente litigiosa consultazione, Alma e Folle decisero che tutti e tre avrebbero prodotto nella mente di Anselmo, durante i momenti critici, i ricordi dell’infanzia.
Poi Folle accennò un ripensamento: Mai abbiamo fatto una cosa del genere. Lavorare per un adulto! Elaborare terapie! Finora ci era solo capitato di giocare con i bambini e comunque mai per risolvere i loro problemi.
– Forse può ritornare bambino e giocare con noi – disse Alma.
– Ma perché? – insistette Folle.
– Per il suo bene! Perché è in crisi e solo noi possiamo ricostruirgli la gioia di vivere – ribadì perentoriamente Alma – lui ricerca in se stesso il suo animo primigenio e noi dobbiamo aiutarlo.
Nella distribuzione dei ricordi Folle prese ad occuparsi dei voli della fantasia, Alma degli affetti. Le aspirazioni del ragazzino Anselmo erano terreno comune di Alma e Folle. Sì, perché Alma tendeva a curare le tensioni ideali di Anselmo, le nobili idee sulla giustizia e l’equità, mentre Folle si rivolgeva ai propositi di dominio, ai desideri di agiatezza e facilità d’esistenza. Cob non riusciva a metter in testa ad Anselmo un ricordo se non lo associava a qualche azione di sabotaggio.
L’importante era solo che l’effetto rendesse. E rendeva, infatti. Anselmo ormai passava ogni giorno a pensare e ripensare agli episodi del suo passato fanciullesco; La vita era così indigesta che non gli restava altra consolazione. Da piccolo sognava di fare l’avvocato (Alma ogni tanto lo induceva a ripensare alle arringhe solitarie che pronunciava dodicenne davanti allo specchio) ma non c’era mai riuscito ed aveva dovuto ripiegare su di un impiego che ora, a quarant’anni, sentiva come tedioso e ripetitivo.
Anselmo aveva sposato la figlia di un merciaio il cui negozio continuava a godere di una buona rendita. Lei vi lavorava insieme ad un fratello. la moglie di Anselmo era una donna semplice e dalle idee chiare. Non capiva i cambi d’umore del marito. – Una volta che si ha la casa, il lavoro e un figlio da mantenere, che altro vuoi dalla vita? – Anselmo le dava ragione muovendo appena i suoi occhi in bonaccia. Intanto cercava di rifarsi l’immagine di lei com’era un tempo, sempre serena e bellissima.
Una notte sognò di ritrovarsi nel boschetto vicino alla casa di campagna dei suoi come quando, da piccolo, ci andava per raccogliere terra ed erba e per cercare le lucertole lungo i sentieri. Gli apparve la moglie con un viso da fata, su una carrozza bianca: – Ti dono una stella – gli sussurrò. Anselmo prese la stella e con questa poteva volare ed osservare il boschetto dall’alto, controllare i movimenti di lucertole, scoiattoli, uccelli e perfino talpe. Folle fece continuare il sogno così a lungo che la mattina dopo il suo protetto non sentì la sveglia ed arrivò tardi in ufficio. Sempre più spesso Anselmo toccava la disperazione. Era deluso, scontento, insoddisfatto. Il lavoro lo annoiava ma quando usciva dall’ufficio non trovava motivi validi per essere sollevato. A casa tornava il più tardi possibile. Unica consolazione, faceva lunghi giri per le vie del centro; ogni giorno percorreva gli stessi posti ma in ordine diverso. Gli piaceva vedere tanta gente e le luci dei negozi che rendevano vivi i corti pomeriggi invernali. Ma dopo quell’ora di cammino, salendo sull’auto per rincasare, provava una nausea atroce. La camera piena di modellini di automobili, navi, aerei (era famoso tra gli amici ed i conoscenti per quest’altra collezione), un tempo il suo vanto, ora la detestava. Appena a casa, andava subito in salotto, l’unico luogo dell’appartamento che riuscisse a sopportare. Teneva la televisione sempre accesa. Lo divertiva la considerazione che essa fosse un ”modellino” dell’esistenza. Una volta consumato questo pensiero, puntualmente era in preda allo sgomento. Non sapeva più se amava la moglie né forse gli importava davvero saperlo. Lo addolorava profondamente invece la freddezza nei confronti dell’unico figlio. Ogni volta che gli parlava uscivano frasi vuote e consigli bugiardi di cui poi si pentiva con afflizione. Amici era un pezzo che non ne vedeva. Gli telefonavano ma non aveva voglia di vedere nessuno. Passava le serate con il telecomando in mano e spesso si addormentava sul divano. Assumeva allora pose incomposte e goffe; si svegliava di soprassalto con lo stomaco attorcigliato sentendosi stropicciato come uno straccio sporco gettato in un angolo. Stati di all’erta per Alma, Folle e Cob.
Anselmo lavorava per una piccola azienda che non attraversava un felice momento economico. I quadri del personale registravano frequenti riduzioni e spostamenti interni. Un giorno Anselmo fu convocato dal suo principale. Doveva, per malprecisate esigenze di ricambio, ricoprire il suo vecchio incarico, che, pur se analogo, comportava minori assunzioni di responsabilità e quindi minor prestigio rispetto al posto attuale. Per Anselmo fu un’offesa gravissima.
– Lei non può trattarmi così, dopo anni che…
– Senta, ragioniere, lo sa, siamo in un momento difficile. È anche questione di tempo. Anche altri suoi colleghi sono nella stessa situazione, bisogna che tutti… anzi, lei pensi a quelli che…
Anselmo richiuse la porta con il cuore in gola.
Al piano di sotto, poco prima dell’uscita, trovò una collega che gli lesse in volto l’abbattimento a così chiare lettere che gli chiese spiegazioni. E dopo che Anselmo le riferì quanto era successo, disse: – Andiamo a prenderci qualcosa. Calmeremo i nervi. Anch’io oggi sono così irritata…
– Perché? – chiese distrattamente Anselmo.
– No, è mio marito. Lui… Ascolta, Anselmo, è tanto che te lo voglio dire. Avevo già notato come ti trattava il capo ultimamente. Tu meriti molto di più.
Anselmo la guardò, sorpreso, fermandosi proprio all’ingresso del bar.
– Veramente, lo dico davvero, con i tuoi studi e per come sei, insomma…
– Ah, lasciamo perdere.
– Anselmo…
I loro sguardi si incrociarono e Anselmo si accorse per la prima volta di quanto lei fosse bella. Vide le sue labbra che fremevano nervosamente e gli sembrò che lì si fosse concentrata tutta la sensualità possibile.
– Io… – fu ad un passo dal baciarla.
– Gloria! – una voce gridò dall’interno – Diavolo, è un pezzo che non ti vedo. Non esci mai dal buco, eh? – e giù una risata fragorosa.
– Anselmo, questo è Giorgio, un vecchio amico. Giorgio… Anselmo. Forza, su, entriamo… Cavolo, Giorgio, come sei ingrassato!… Adesso ci prendiamo qualcosa, tutti e tre. Dai!
Anselmo si sentì sprofondare. Eppure non era successo nulla. Ma quel tono così cameratesco e svagato di Gloria fu il disincanto peggiore. Improvvisamente sentì la sicurezza del fallimento. Di un totale e insopportabile fallimento. Inventò una scusa e scappò via.
Quella notte Ama, Folle e Cob ebbero un superlavoro. Alma ridiede ad Anselmo l’immagine del “tribunale” che da piccolo sapeva ricreare ed organizzare nei corridoi della scuola coinvolgendo gli altri alunni della classe; lui era naturalmente avvocato difensore ed ogni volta riusciva a far assolvere il compagno di turno. Folle riportò Anselmo nell’amata campagna: i ceppi usati come pali di porte da gioco, i palloni sempre sgonfi, le gare in bicicletta con alcuni “inseparabili”, le torte sul davanzale all’aperto, come avrebbero fatto Paperino o Nonna Papera (la mamma non dimenticava mai questa concessione), i tuffi solitari nell’erba e gli appostamenti davanti ai conigli, il sole che tramontava e la penombra della collina che, solo lei, dava quel colore così bello ai fiori…
Giunto il sonno Alma stava facendo sognare ad Anselmo le imitazioni del direttore d’orchestra e del pagliaccio-acrobata-ballerino (spettacoli “per famiglie” con tanto di biglietto a pagamento), quando Cob combinò un disastro. Ridiede ad Anselmo l’appetito del dodicenne che, solo in casa per un quarto d’ora, fece indigestione di cioccolata e succo d’arancia, e gli fece ora vuotare il frigorifero durante l’ennesimo episodio di sonnambulismo. Alle cinque del mattino Anselmo era quasi morto. Si alzò dal divano e cercò aiuto. Dopo qualche attimo di panico, vomitò finalmente sul tappeto. La moglie lo sgridò. Ci fu una lite furibonda. Anselmo uscì di casa per non sentire più nulla.
Alma, Folle e Cob si riunirono immediatamente.
– Forse abbiamo esagerato – disse Alma.
– Il fatto è che lo stiamo viziando – osservò Folle – e poi non si possono produrre ricordi a questo ritmo. Perdiamo anche lucidità.
– Ma è per il bene di Anselmo – ricordò Alma.
– Quel mediocre!… – disse fra i denti Folle.
Anselmo entrò in una cabina e telefonò a Gloria. Sentendo il suo “pronto” irretito, buttò giù. Erano le sei del mattino. Non andò a lavorare. Detestava Gloria. Anzi, non lo interessava proprio. Non sapeva più cosa voleva.
Alma, Folle e Cob lo seguirono. Era sul ponte monumentale. Solo fastidio e irritazione per quelle auto veloci e ottuse come formiche. La distanza e l’altezza non davano sollievo.
Alma e Folle si chiedevano dove avessero sbagliato. Cob propose di buttar giù Anselmo ponte; per lui era solo uno scherzo innocente o forse si sentiva spinto dalla curiosità che si prova ad esplorare un pozzo.
Ma Alma e Folle si girarono istintivamente verso Cob e lo guardarono con severità e vergogna. Questo gesto così umano li fece restare tutti e tre di sasso, stupiti, interdetti e un po’ spaventati.
Fu un’intensità muta, senza fiato. Dopo un lungo attimo improvvisamente capirono, si accorsero del pericolo corso e volarono via lasciando Anselmo con i gomiti sul parapetto.