Personae – di Marco Drago (Il babau n.13)

Sono sempre io a vedere la storia e a raccontarla fin dall’inizio degli inizi del tempo, sempre io a creare e ad abitare i mondi di carta e celluloide. Un occhio, il mio. Dopo tutto. E io è un suono così ambiguo, dopo tutto. Hi-Ho fa l’asinello. I-O. Vado: io guardo il fiume marrone che poco ha a che fare con un fiume e dà l’impressione di un ruscelletto nel mezzo del deserto e intanto una libellula ronza qui attorno, falsando lo scorrere del tempo, deformando lo spettro dei colori. Un ronzio come un’autostrada lontana, come una radio dal piano di sotto. Guardo il fiume e ne fisso l’immagine con una piccola macchina fotografica, la spazzatura rossobiancagialla recita salmi dell’anno prima, salmi in una lingua morta, il popolo storpia fatalmente la Parola, la riduce a formula -abracadabra- a formula di magia stregonesca. Dash. Finish. Ignis. Io ho ragione. Io sono d-io. Ho tredici anni e deliro di onnipotenza. Ho venti anni e deliro di impotenza. Ho trentasei anni e deliro di corpulenza. Ho novantanove anni e deliro di senescenza. Pecco e certo che pecco anche consapevolmente, e intanto il fiume mi passa via e io sto qui a guardarlo e il ronzio. Il ronzio mi continua. Intanto il ronzio come un suono di campana ondeggia il tempo – e lo spazio raddoppia al di là dell’orizzonte di colline basse e verdastre e poi più in là, il mare e oltre il mare. La costa di un’altra terra, e poi ancora le prime case a ridosso della spiaggia. Bianche case spogliate di ornamenti. Io mi alzo in piedi e cammino, così che gli stampi delle mie scarpe possano scrivere il loro linguaggio e che la libellula possa interrompere il suo incantesimo e che la mia percezione rientri a casa. E dopo tutto sono sempre io a definire il tu, il lui, e la sinistra e l’est e la casa accanto. Ed è da questo tempio che parte il segnale radio corretto, che inizia e finisce Madonna la Comunicazione. In fila!

 

Tu pensi di avere fatto la cosa giusta. Credi di poter sfoggiare il tuo migliore sorriso di innocenza ostentata. Ogni passo che fai lo fai non vedendo altro che il tuo povero campo visivo e dunque. Rimetti la macchina in garage, ti chiedi come è possibile che siano le cinque di mattina, ti chiedi se la ragazza che chiami Moglie sia la stessa che hai amato non sai quanti anni fa e ti chiedi mio dio che cosa ho fatto? e la risposta è nella scia che la cintura del tuo soprabito sta lasciando sulla neve fresca. Omettino tremante, guardati bene. Omettino repellente dalle scarpe lucidate, omettino senza sangue. La tua esistenza è in un sacco e il sacco è lì lì per dare un giro e cadere. Ti senti dire delle cose e realizzi che sei tu che le ascolta solo dopo qualche secondo e nel frattempo sei volato da un’altra parte, dall’altra parte. Hai un ritmo da tenere, un tempo da rispettare e sta tutto nel tuo cuore che pompa e nel sole del mattino dalla finestra della cucina. Succo d’arancia. Doposbronza. Una notte di undici anni fa con flauti e xilofoni e una lucetta rossa nel buio. Il suo respiro e il tuo cervello saturo. E poi sei tu a guardare la fine del giorno con un sospiro di sollievo e a sperare che i titoli di coda, enormi, si alzino sul cielo scuro.

 

Lei aveva una madre per nemica e qualche vago sogno mattutino di batticuore malsano. Ventiquattro anni, giovane come l’acqua, lei doveva trovare il modo di far felice una madre psicopatica, sposare un miliardario e continuare la nobiltà mercantile della famiglia, soltanto che un demone vigliacco la spingeva in continuazione verso altre mete e altre vite. Si trovò spesso a dover schizofrenizzare le sue uscite serali, inventare feste mondane in vece di bar di plastica senza ventilatore e figli di industriali in vece di tossicomani quarantacinquenni. Il tailleur grigio perla la battezzava “Princess” e una piccola leggenda locale sorse con lei protagonista, una favoletta a fine incerta, che in qualche modo ancora oggi si bisbiglia nei negozi e poco prima dell’entrata alla messa domenicale. Volle, un giorno, anche ballare prima vestita poi gradualmente denudata e infine nuda – abbronzata, i capelli castano chiari che mandavano segnali rossi all’ondeggiare del corpo – ballare nuda per un pubblico di balordi, giusto per divertimento, quello che non aveva mai fatto, quello che le mancava. Battevano le mani, i balordoni, e lei avrà pensato “Belli miei, vi ho tutti qua!” e si sarà indicata il petto e il cuore.

 

Nella sua voce si notavano interferenze estranee, brevi scosse quasi elettriche, una voce da automa, si sarebbe detto, una bambola meccanica inizio secolo ventesimo. Nei suoi vestiti, verdi, si intuivano notti stropicciate a non dormire affatto, forse veglie televisive o, buon per lui, spericolatezze amoroso/ginniche. Lieve. Era un uomo lieve, se ce ne sono mai stati. Passava oltre dopo aver appena fatto sentire la sua voce elettronica: era un soffio di aria stantia, uno squarcio di chiuso cassetto. Bartolomeo? Era così che si faceva chiamare? Oppure Tolomeo? O forse soltanto Meo? Un nome da simbologia da frigorifero, qualche santo con quel nome avrà pur a che fare con voci elettroniche e verdi camicie, verdi calzoni e verdi sciarpe attorcigliate sotto verdi cappotti, no? E poi, visto che del suo nome rimane in bocca solo il lontano sapore di archetipi ancora da scoprire, viene alla mente la marca dei suoi vestiti verdi: “Adam Armstrong”, che è una delizia di nome, una vera delizia: il primo uomo sulla Terra e il primo uomo sulla Luna, tutti racchiusi sull’etichetta verde di capi d’abbigliamento verdi. Adam Armstrong, un nome da romanzo.

 

 

Noi procediamo oltre i nostri singoli bisogni e le nostre singole certezze, travalichiamo le meschinità di una vita privata, privata di gioia collettiva. Noi stiamo andando verso il vero mondo libero, boicottando il consumo, sopravvivendo strenuamente nel mezzo di una società ostile e sempre meno simile a quella che auspichiamo, ma la forza è in noi. La forza è noi. Pronti per il progresso a negare verità acquisite, anzi trovando nel rovesciamento di verità acquisite la migliore benzina per continuare a parlare e a recitare le dottrine. Forse che le nostre barbe e i nostri pastrani, le nostre sciarpe lunghe e le nostre frasi dislessiche non significano niente? C’è un nuovo sole all’orizzonte e ci hanno detto che c’è davvero e che sta per sorgere.  

 

Voi siete gli altri. Una massa di masse massificata, case, automobili, recinti, muri. La vostra presenza si avverte anche quando non ci siete. Alle cinque del mattino, tutti quei viali deserti non significano che ve ne siate andati. Ci sono segnali dappertutto. Territori occupati, bandiere, stemmi, casati, voi. Alle cinque del mattino tutte quelle automobili abbandonate come gusci vuoti cosa sono se non il segno della vostra vita – senza chiavino dell’accensione non partono e non partite e non si parte per nessuna parte – alle cinque del mattino. Il poeta degli anni Venti come il romanziere del Settecento come il filosofo/superman come almeno qualche milione di altre Anime Elette. Panini di carne tritata e maionese e cipolla e formaggio in scatole di carta gialla, liquidi scuri frizzanti in bicchieri di carta biancorossa, insalata disidratata in recipienti di plastica trasparente con finte gocce di rugiada. Le ninfe sono partite. La tenda del fiume è rotta. Ma vi voglio bene, dice mister Papa dalla finestra – novello duce bianco – ma vi voglio così bene e così davvero tanto bene. Bene. Voi.

 

Loro esalavano ultimi respiri uno dopo l’altro – i nemici – sotto le coperte gettate lì a caso, coperte infette – come con certe tribù di pellerossa. La bambina chiedeva della mamma, che, poveretta, chiedeva della mamma anche lei. Strappalacrime? O niente di tutto ciò? Logistica. Dove mettere tutte quelle carcasse? Disinfettante. Brucia gli occhi. Si agitavano a cercare nomi stranieri alle nostre città. Nuove religioni e nuove fotografie da adorare. Giornalisti che premono per vedere. Vedere loro crepare. Via di qua! Andatevene a casa! Che cosa vorreste capire di quello che vedete? Avete solo l’aiuto di un paio d’occhi e di qualche telecamera. Non basta. Non basta proprio. Via di qua! Si lasciano andare e poi muoiono e manco se ne accorgono, è un attimo di indecisione nel respiro. Eppure anche loro hanno ballato alle musiche nelle sale sulla costa. Non si direbbe proprio, vedendoli adesso. Si direbbe che la terra li abbia partoriti malandati e che aspetti di riaverli nel giro di qualche minuto. Si direbbe.

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