Mio padre aveva mani operaie
Mio padre aveva mani diverse dalle mie,
aveva mani operaie.
Mio padre quando le agitava
aveva mani che sgusciavano
come fianchi di salmone nei fiumi
e quando le premeva
affondava dita prensili
nelle spore giganti del coraggio.
Mio padre aveva nocche a trivella
che perforavano gli abissi indecisi
della mia adolescenza;
e soffiava su palme essenziali,
percorsi da cunei a picco di guscio,
quando stancamente scrollava il cappotto
coperto di sabbia e di pioggia
(spesso pioveva agli angoli della povertà!)
Mio padre diceva che gli operai
non ascoltano poesie
perché tutti i poeti li hanno traditi:
nessuno – diceva – sa usare le mani.
Così mio padre arava le utopie
con artigli di falco
ma non odiava i poeti.
Aveva mani di pergamena, lo so,
che spiegava alla brezza del sole;
che vi leggesse intera la poesia siderurgica,
quella della solitudine secca filettata su un tornio.
Mio padre aveva mani operaie
e le univa sempre tra loro;
io credo a pronunciare l’ancora dell’arrivo
nel discorso infuriato del viaggio della povertà.
Genova cera bigia
Genova cera bigia
ha tetti fitti sui nostri cuori;
s’innalzano dagli usci d’ebano del mare
e si proteggono vicini tra le piazze,
le piovose;
così a sguardi secchi di colline defoliate
nascondono le conchiglie d’oro delle strade,
sdrucciole cerniere aggrovigliate;
la città è un mistero senza uomini
consegnato alla cenere del sole.
Avanza feroce la vita
Avanza feroce la vita ed ogni alba a tamburo
l’annunzia;
dalla rosa agglobata del mare
spirano venti di pietra:
è uno svanio di sogni, di fonti.
Giorni di lava,
custodi ai gerani di fuoco del sole,
sbrecciano granulose purezze.
S’accorpano detrite coscienze a deriva,
spremute dai mantici d’ariete dell’aria;
castagni di creta,
fessure schive di paura,
bussano a rovi di uomo.
I figli del dolore agitano locuste d’occhi
tra ventagli d’anima
E’ tempo di foreste,