Il Teatro delle Nuvole, due non recensioni di C. M. Marenco

Queste due non recensioni, pressoché uniche all’interno del babau, furono pubblicate per l’urgenza di rispondere al dono di un’esperienza.

Apparvero entrambe nella rubrica La Finestra sul Cortile (n.12 1994, n.15 1996), vengono riproposte non avendo perso ragione d’essere.

 

Mutamenti del Tempo

Fresche pioggie io porto da mari e ruscelli per i fiori assetati; un’ombra lieve  io reco per le foglie quando giacciono in sogni meridiani– a parlare in questo modo, attraverso la voce di P. B. Shelley, è la nuvola, portatrice di vita e mutamento, simbolo del tempo, non solo atmosferico, nel suo continuo divenire di morte e rinascita. Elemento proteiforme per eccellenza la nuvola è scesa a terra, sembrerebbe, per farsi teatro –Il Teatro delle Nuvole— ed inventarsi una rappresentazione dal titolo Mutamenti del tempo. Titolo autoreferenziale, certo, ma anche indiscutibilmente evocato dall’autore dei testi originali -qui rivisitati- quel Vladimir Majakovskij che alla trasformazione dell’esistere e del rappresentare inneggiava a cuore tambureggiante.  L’opera poetica di Majakovskij è rivisitata -si è detto- accorpata, resa teatro, reinterpretata dalla bocca delle verità celate di sempre, Yorick il buffone. Un Yorick fattosi qui Groucho, Clown Bianco, Clown equilibrista, Clown giocoliere…

Mutamento è travestimento, Nuvola è Clown, dunque, ma non solo, è poesia: una poesia che, vestita dei colori sognanti del circo, non suona più come suonava al tempo in cui fu scritta… Un refolo di vento ha mutato delle parole l’intonazione, forse, non la nota più intima, universale. I tempi sono cambiati, i tempi son sempre gli stessi, nell’identità propria del divenire e di questo nuovo Majakovskij – un altro Majakovskij e quindi sempre lo stesso. Ed a noi rimane negli occhi un giocattolo magico di nuvole -quelle del Teatro, appunto- a render teatro e vita un testo che non ha da esser letto soltanto. Nella maschera mutevole dei clown espressioni marcate, gioia, dolore, stupore, incertezza; dietro la maschera -l’abbiamo scostata- il cuore.

Se le nuvole -sempre quelle del Teatro- dovessero portare dei mutamenti del tempo nella vostra città, fermatevi ad osservarle: vi scorgerete un pezzetto di cielo.

Il Teatro delle Nuvole è a Genova, sarà altrove.

 

I Fabbricatori di Sogni

“C’è un sogno a parlare di me, un canto in un passo di strada”* e questo ed altri sogni porta per le strade ed i teatri d’Italia il Teatro delle Nuvole con il suo I Fabbricatori di Sogni. Sono i sogni di Hikmet, Goethe, Hesse, Wenders, Nietzsche, Lanzetta, Ginsberg, Ferlinghetti e Gioconda Belli. Ma c’è anche Ionesco: Capita di sognare. Ti lasci prendere, credi al tuo sogno, lo ami. Il mattino, riaprendo gli occhi, due mondi si mescolano ancora. I volti della notte sbiadiscono nella luce. Vorresti ricordare, trattenerli. Ti sbiadiscono fra le dita, la realtà brutale del giorno li respinge. Che cosa ho sognato? uno si dice. Che cosa succedeva? (…) Che cosa dicevo e che cosa mi dicevano? Si rimane lì, con il rimpianto confuso per tutte le cose che furono, o che si pensa siano state. Non sappiamo più che cosa ci fosse attorno a noi. Non sappiamo più. Ed è esattamente quello che si prova appena terminato lo spettacolo del Teatro delle Nuvole, si ha l’impressione di aver vissuto qualcosa di grandioso, ma presto i colori forti svaniscono e rimane il rimpianto di non star più sognando. Ma poi, per fortuna, riandando alle emozioni provate, ecco che il filo si dipana e si fa la luce. Marco Romei riesce ancora una volta in un’impresa non semplice, quella di creare un testo teatrale da una poesia non nata per esser teatro, di creare un percorso tra testi ed autori lontanissimi. Ancora una volta dunque questo gruppo (l’autore-attore Marco Romei, l’attrice Franca Fioravanti, l’artista visivo Adriano Rimassa, il musicista ) rendono teatro la poesia, e poesia il teatro. Il sogno che ci offrono e che sognamo con loro è un sogno ad occhi ben aperti, ora nostalgico e carico degli echi della morte, ora dissacrante e visionario, altre volte è un urlo all’infinito, con l’incedere ossessionato dei nostri anni. È però sempre e comunque un sogno consapevole: noi siamo il nostro sogno. Il tempo è fugace. Per gli ambigui, il tempo è ambiguo. Per l’eroe il tempo è eroico. Se sei gentile, il tuo tempo è gentile, se vai di fretta il tempo vola via. Il tempo è un servo, se tu sei il suo padrone. Il tempo è il tuo Dio se tu sei il suo cane. Noi siamo i creatori del tempo, le vittime del tempo, e gli assassini del tempo. Il tempo è senza tempo. (Wenders) E così il tempo della rappresentazione  scorre lento chiaroscurale ed a ritroso nel sogno di Hikmet, divenuto nostro, mentre altri sogni, inseriti magistralmente a controcanto, creano corpo alla nostra coscienza facendola procedere innanzi. I tedeschi Goethe, Hesse, Wenders, Nietzsche sono di complemento ed esaltazione di Hikmet, poeta turco, quasi a dimostrare come due culture così lontane e nei fatti così difficilmente integrabili sono in realtà integrabilissime. Ma non è solo questo. Ora sappiamo di avere un sogno, ce lo dice Ionesco, ed è un sogno asincrono rispetto a quello di una società irrispettosa dei sogni: è il sogno di un cuore che batte, e non vuol smettere di battere, un cuore che ci arriva in gola ed esplode in urlo febbricitante (è questo il momento del pathos più alto di tutto lo spettacolo).

Ci sentiamo come svuotati, più saggi forse, anche il nostro dio, se l’abbiamo, ci appare vanificato da troppe parole ed atti. Eppure, sebbene in tutte le profezie sta scritta la fine del mondo, i versi di Gioconda Belli ci indicano la strada da seguire, quella dei portatori di sogni, una strada antica e più volte negata, romantica, illusa ed utopica, ma anche l’unica strada sulla quale si può incontrare un Dio che sappia danzare. Le luci si spengono per riaccendersi, lo spettacolo, coinvolgente, è terminato e presto sbiadisce nel ricordo, eppure dentro qualcosa è rimasto. Si è fuori dalla sala e viene da chiedersi: sogno o son desto. C’è solo una risposta: Son desto e quindi sogno.

 

*Divina – di Maurizio Puppo (Il babau n. 9)

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